“Un’esplosione tremenda , mai sentita una
così potente“ ha twittato un testimone sopravvissuto ma scosso nella testa
oltre che nelle membra. Il camion-bomba saltato in aria stamane nel cuore di
Kabul è una conferma di quel che accade da circa tre anni nella capitale
afghana, con l’aggravante di un’escalation che diffonde sempre più paura e
morte. Ufficialmente le vittime sono 19 e i feriti alcune centinaia, però giornalisti locali che stanno postando sui
social media immagini e commenti già parlano di 50 morti e prevedono un tragico
aumento viste le condizioni disperate di diversi feriti. Così il ‘poligono
afghano’ aumenta la potenza di fuoco: alla Moab statunitense la guerriglia
risponde con ordigni esagerati collocati nei luoghi un tempo considerati
sicuri: il quartiere delle ambasciate. E’ quella che chiamammo la città
proibita, che risulta tuttora controllatissima. Che mostra cinta di mura
concentriche vigilate a strati: esternamente dall’esercito locale, quindi da
contractors e nella fascia più interna dai reparti speciali di quel che fu l’Isaf, trasformatasi nelle cangianti
sigle Nato in Resolute Support. Questa
presunta morsa risulta da tempo permeabilissima, e se da una parte è chiaro che
la zona esterna vigilata dai soldati afghani mostra un ventre più che molle e
può essere superata grazie a infiltrazioni, si può pensare che i miliziani
abbiano cominciato a infiltrare anche le truppe mercenarie e che fra le fila
dei militari Nato si muovono agenti dei Servizi (Cia, MI6, Isi?) mica tanto
amici che favoriscono questo genere di azioni. Supposizioni, più che fantasie,
suffragate da fatti che parlano chiaro:
Kabul e il suo cuore risultano totalmente sotto scacco degli insorti, che
stamane hanno recapitato immediatamente la rivendicazione dell’attentato con
una firma congiunta Isis-taliban.
Quali
talib? Quelli che dissentono con la Shura di Quetta e hanno stilato una linea
comune con l’Isis o che ne utilizzano il brand? O i medesimi miliziani che
colpiscono indisturbati da due anni, occupano province, praticano il mordi e
fuggi d’una guerriglia comunque presente in pianta stabile su due terzi del
territorio? che poi sono gli stessi con cui il presidente Ghani vuole intavolare
colloqui e spera di cooptare per un “governo di pacificazione” e per questo ha
scelto come maestro di cerimonie il macellaio Hekmatyar? Rispetto a quanto
abbiamo analizzato in due recenti articoli che trattavano i piani per il
presente che è già futuro nella politica statunitense sul suolo afghano, il
generale Nicholson ha esplicitato la necessità d’un ritorno al passato
rimettendo “boots on the ground”. La motivazione principale è l’insicurezza
assoluta evidenziata dalla quotidianità del Paese e attentati come l’odierno
sono musica sulle corde del generale. Ovviamente gli strateghi di Washington
non citano il totale fallimento del proprio progetto di “normalizzazione” che
ha visto spendere cifre iperboliche proprio per la creazione e l’addestramento
di un esercito locale che ha raggiunto numeri considerevoli (oltre 350.000
unità) e che mostra contraddizioni pazzesche: diserzioni, accaparramenti
illeciti e corruzioni totalmente trasversali dai vertici alla base. Con armi
scomparse o vendute a taliban e ai gruppi paramilitari dei vari signori della
guerra. E col corposo fenomeno dell’infiltrazione grazie al quale operazioni di
terrore come quella di stamane sono resi possibili. Ma quest’ultime inseguono e
si legano all’altro terrore conosciuto negli anni dell’Enduring freedom: bombardamenti sui civili, assassini mirati e non,
rendition verso l’intera popolazione. Tutto ciò non è mai finito. E
probabilmente riprenderà in grande stile.