“Lo spirito razzista presente negli Stati Uniti è stato celato dietro
pronunciamenti democratici e pretese di diritti umani”. “Menzionare l’Iran fra le nazioni che
introducono azioni terroriste ha il sapore di uno scherzo” ha affermato il
portavoce del parlamento iraniano Ali Larijani.
Una reazione tutto sommato diplomatica alla sortita del presidente
Donald Trump che, incurante dell’intera popolazione americana, del Congresso,
delle tendenze presenti nel suo stesso partito, ha firmato quel decreto che
vieta per tre mesi l’ingresso nel Paese ai musulmani di sette nazioni: Iran,
Iraq, Siria, Libia, Yemen, Sudan, Somalia. Mentre monta la protesta degli
americani anti Trump dall’Iran, con cui la politica statunitense aveva negli
ultimi mesi trovato una distensione grazie all’azzeramento delle sanzioni
economiche, giungono commenti vari.
Sibillino quello del ministro degli Esteri Javad Zarif “Un magnifico regalo agli estremisti” che possono essere individuati
nei jihadisti sparsi per il mondo, e pure nella componente conservatrice
interna. Quella teologica di certi ayatollah e quella laica del partito dei
Pasdaran che riprenderebbero il braccio di ferro con l’Occidente ora che s’approssimano
la campagna elettorale e la battaglia contro i riformisti (le presidenziali sono previste per il 18
maggio). La rimozione delle sanzioni sta avendo un effetto rigenerante per l’economia
iraniana, con 10 miliardi di dollari di progetti legati all’energia che sono
stati stipulati con varie compagnìe estere.
Se quelle di sponda
russa e cinese non saranno coinvolte in nuovi scossoni geopolitici, i marchi
giapponesi, sud coreani, turchi e poi tedeschi, inglesi, belgi, danesi,
olandesi, spagnoli potrebbero vedersi piovere addosso la mannaia di ennesimi
embarghi cui allinearsi in virtù della vicinanza strategico-militare con
Washington che riporterebbe ai recenti anni dello scontro sul nucleare o quelli
remoti della crisi con la fatwa khomeinista. Sul tema interviene proprio il
ministro iraniano dell’Energia Hamid Chitchian, che ha sollevato la questione
alla vigilia dei dieci giorni di festeggiamenti per l’anniversario della
Rivoluzione iraniana in programma dal 1° al 10 febbraio. Ha ricordato come per
alcuni progetti energetici nel marzo prossimo è attesa la definizione di
contratti per 2 miliardi di euro con alcune compagnìe europee, mentre nei dieci
giorni della memoria khomeinista ben 5.000 piani per l’energia, in gran parte
riguardanti il settore elettrico anche con energie rinnovabili, dovranno
trovare attuazione. Alcuni investimenti riguardano nazioni contigue come
l’Iraq, altri lo stesso territorio interno e offrirebbero libertà d’iniziativa
ad aziende private della più varia provenienza. Anche per questo l’attuale
dirigenza di Teheran vicina al presidente Rohani non ha alcun interesse a
rompere il clima di collaborazione miracolosamente ripristinato e spenderebbe a
suo favore nelle urne il fiume di denaro che i contratti possono introdurre nelle
casse statali o nelle bonyad di clerici e Guardiani della Rivoluzione, visto
che diverse aziende interne afferisco a tali proprietà.
Ma per mister Trump
ideologia ed energia hanno una rima che conduce a quell’interesse americano
carezzato anche prima del suo arrivo. L’esempio delle concessioni governative
alle volontà della lobby dei propri petrolieri è lampante. Trump non c’era,
Obama subiva questi voleri e la produzione statunitense negli ultimi anni ha
raggiunto vette mondiali contro qualunque accordo sull’estrazione, in faccia a
qualsiasi buon rapporto con le amiche petromonarchie; e pure contro qualsiasi
logica di guadagno, visto gli altissimi costi della scellerata tecnica della 'frantumazione idraulica' oltre che la pessima qualità degli idrocarburi estratti bisognosi di
un'altrettanto costosa lavorazione. Però così l’America è diventata autosufficiente,
anzi è in testa alla produzione mondiale, compete coi colossi di gas e
petrolio. L’Iran è fra questi, e com’era già accaduto, creare fratture ed
embarghi economici è un gioco perverso che non provoca ripercussioni sul
colosso d’Oltreoceano, ma fra iraniani e partner commerciali europei. Che il
business personale e le propensioni politiche del neo presidente americano
abbiano la meglio sulla stessa ideologia sarebbe dimostrato dall’esclusione dai
divieti d’ingresso in territorio Usa di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti,
Libano, Egitto. Taluni analisti sostengono che non sarebbe questo il motivo:
altre inaffidabili nazioni islamiche (il Pakistan su tutte) non rientrano nella
lista nera. Si mira a colpire nazioni dai governi deboli o inesistenti (Siria,
Iraq, Libia, Somalia) e quelle con cui amerikani che non dimenticano hanno conti
in sospeso, sommando la lesa maestà del passato con gli attuali riequilibri
strategici e di mercato.