IL SANGUE DEI VINTI, di Giampaolo Pansa
Della nuova fatica di Giampaolo Pansa Il sangue dei vinti (Sperling
& Kupfer, 2003) ne è felice esclusivamente la Destra. Quella nostalgica del
mai morto fascismo filo e post, che però litanìe simili le aveva già scritte,
tanto da offrire al giornalista di Casale Monferrato le fondamenta
bibliografiche del suo libro.
E quella “perbenista” che dà più fiato alla revisione della storia. Sul modello
delle non nuove teorie di Ernst Nolte (per il quale il massacro di sei milioni
di ebrei perpetrato dal nazismo non sarebbe mai avvenuto) si sostiene che il
fascismo non è stato una dittatura; non ha seminato morte per conquistare il
potere e conservarlo per un ventennio; non ha praticato assassini di massa con
le guerre mercenarie e coloniali spingendo poi il popolo italiano nel baratro
del conflitto mondiale.
Insomma le pericolose amenità diffuse sulle pagine del Corriere
della sera da Galli della Loggia e dagli editorialisti Mieli e Romano, solo
per citare i più ostinati manipolatori, che trovano il sostegno anche di
riviste come “Nuova storia contemporanea” diretta da Francesco Perfetti.
Ignorare la
condanna della storia
Il
libro, sull’onda dell’attuale moda revisionista, stravende. Escludiamo che Pansa
l’abbia pubblicato per bieco interesse economico: con tutto quel che ha
guadagnato, fra attività editoriale e giornalistica, non ne aveva bisogno. Cerchiamo di capire il fine dell’iniziativa.
La
motivazione che l’autore pone in apertura ha il sapore d’una giustificazione
nient’affatto originale, una sorta di riesumazione
dorotea degli opposti estremismi.
Dichiara “Dopo tante pagine scritte sulla Resistenza e sulle atrocità
compiute da tedeschi e fascisti, mi è sembrato giusto far vedere l’altra faccia
della medaglia. Ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della
Repubblica Sociale Italiana, che cosa patirono, le violenze e gli assassini di
cui furono vittime”.
Dunque il navigato curatore di altri racconti a sfondo
storico guarda gli effetti senza risalire alle cause e finisce
per porre sullo stesso piano dittatori e oppressi, squadristi, partigiani e
vittime civili riesumando la teoria dei morti tutti uguali.
Se si usa come metro la categoria dello spirito la morte può
omologare e unificare gli uomini e le loro sorti. Non può, invece, pacificarli
né renderli simili perché ciò che essi hanno compiuto in vita segna la loro
differenza anche dopo il trapasso. La fine del dittatore Mussolini non è stata
e non sarà mai eguale a quella d’un combattente della libertà. Sono morti per intenti opposti, come
opposta è stata la loro esistenza: l’una segnata da soprusi e oppressione,
l’altra dall’affermazione di pace e
democrazia.
E non si tratta di separare alla maniera manichea bene e male,
ma di non dimenticare i fatti e il giudizio della storia come effetto di “ciò
che riguarda ... tutti gli uomini del mondo che si uniscono tra loro in società
e lavorano e lottano e migliorano se stessi”.
Ignorare gli
insegnamenti della storia
Pansa tralascia un altro essenziale insegnamento della
storia: la consequenzialità dei fatti. Chiunque
la studi sa come molte vicende si susseguono con frequenti legami e
ripercussioni. Spesso qualcosa accade perché in precedenza è accaduto
dell’altro e, per violenze e vendette, tale consequenzialità è ancora più
stretta. Perciò sarebbe quantomeno singolare - se non fosse voluto e fazioso -
parlare della resa dei conti col fascismo e coi suoi sostenitori più fanatici
senza considerare quanti soprusi, oppressioni, violenze, assassini, lutti il
regime mussoliniano produsse in venticinque anni: due di squadrismo pre-marcia
su Roma, ventuno di dittatura e altri due di miserrimo servilismo al
più feroce regime della storia moderna: lo stato nazista.
La stessa recente definizione di guerra civile che molti studiosi, anche non revisionisti, danno ai
terribili mesi dal settembre 1943 all’aprile ‘45, pare impropria. Seppure si
combatté fra italiani non ci fu uno scontro di un popolo diviso in due: la
componente concentratasi a Salò non aveva più alcun legame con la popolazione se non quello imposto dal
terrore e non avrebbe potuto sostenere alcun conflitto se non fosse stata
protetta dall’esercito tedesco. L’Italia visse, dunque, una guerra di Liberazione fra i tedeschi
occupanti affiancati dall’esercito fantoccio della Rsi e le truppe
anglo-americane coadiuvate dai partigiani che miravano a liberare la penisola.
Non
accettare le conseguenze di una tragedia
In verità durante la narrazione l’autore ricorda diverse
stragi nazifasciste sui civili e sui patrioti del Comitato di Liberazione
Nazionale offrendo egli stesso la spiegazione della finale violenza sui vinti
causata da quell’odio verso il fascismo radicato in due generazioni d’italiani
oppressi.
Ma prevale in lui, non sappiamo se per gusto della
provocazione o per una tardiva fascinazione verso le tesi revisioniste,
l’intento di fare il martirologio dei
fascisti eliminati, dando fiato anche ai più screditati falsificatori di
parte: l’attuale deputato di An Antonio Serena, recentemente distintosi per la
divulgazione fra i suoi colleghi parlamentari di pubblicazioni osannanti a uno
dei boia delle Fosse Ardeatine, il capitano delle SS Priebke. Oppure il saloino
Giorgio Pisanò, sostenitore della tesi di 45.000 vittime della repressione
antifascista. Quando è appurato che i fascisti morti del periodo - 1943 fine
1946 - furono al massimo 12.000.
Non si tratta comunque di tenere una macabra contabilità:
alcune decine di migliaia di vittime in meno non attenuano i termini della
fermezza della vendetta.
La questione riguarda la volontà di comprendere le cause
della dura risposta dei vincitori che trovava, per motivi che Pansa stesso
ricorda, una vastissima eco popolare. Se talvolta la vendetta personale prese
il sopravvento sulla giustizia collettiva, il fatto nulla toglie al diffuso
desiderio di punire nel modo più duro chi aveva sconvolto la vita italiana per
un quarto di secolo.
Antifascismo e
insurrezione?
Ai conti col fascismo Pansa aggiunge negli ultimi capitoli
del libro una ulteriore teoria: i partigiani comunisti nei mesi successivi la
fine del conflitto cercarono di colpire anche i capitalisti e gli altri
nemici di classe. Il giornalista getta in un unico contenitore l’odio
per i criminali di guerra, l’astio contro i semplici fascisti (cosa
significasse nei mesi di occupazione non è dato sapere, visto che si finiva al
muro o in un lager anche per una spiata anonima), lo scontro di classe,
vendette private e azioni banditesche a sé stanti.
Certo, parecchi fascisti e grassatori implicati col regime
vennero ricercati ed eliminati con
metodi diretti.
Anche perché dal 1946 la giustizia
italiana non ammise più per costoro alcuna punizione. Non fu possibile
praticare quello che Simon Wiesenthal attuò nei confronti di alcuni criminali
nazisti fatti rifugiare in America latina dall’organizzazione Odessa. Alcuni
furono catturati condotti in Israele processati e condannati a morte.
In Italia dal 1946 la situazione mutò profondamente a tal
punto che i reduci della Rsi, in barba alla Costituzione già
riorganizzati nel partito neo-fascista del Msi, ebbero la possibilità di
riapparire in pubblico. E iniziarono a organizzare un’attività eversiva contro
la neonata democrazia con tanto di neo-squadrismo. Da
quel momento furono i partigiani
comunisti a essere incriminati
per le epurazioni compiute e vennero costretti a riparare in Cecoslovacchia e
Jugoslavia.
Se Pansa vorrà indagare (non è un segreto Spriano, Fiori
avevano iniziato a farlo) sulle posizioni classiste nel Pci post-resistenziale
che si trovò a confliggere col realismo togliattiano, può farlo. Emancipandosi
però da teorie scarsamente attendibili come quella di Zaslavsky e Aga-Rossi su
un presunto disegno del gruppo dirigente del Pci d’indebolire con eliminazioni fisiche la borghesia per poi sostituirla.
Tesi surreale visto che la linea togliattiana, pur con la sua tradizionale
doppiezza, non lasciò mai spazio nel periodo post-bellico a posizioni
insurrezionaliste, attuando una linea riformistico-partecipativa.
Anche Secchia e Longo, in quella fase critici col
segretario, presero sempre le distanze dalla cosiddetta “malattia del mitra”, una scorciatoia militarista che incarnava più lo spontaneismo ribellistico
che programmi realisticamente rivoluzionari. Se
quest’ultimi fossero praticabili e a che prezzo lo si dovrà commentare
storiograficamente con ricerche e studi, impegnandosi a realizzarli con rigore.
Le congetture e le interpretazioni scandalistiche come quelle degli ultimi
capitoli del Sangue dei vinti non
aiutano certo la ricerca storica .
Da don
Calcagno a Farinacci, da Colombo a Koch
Seguiamo alcuni passi della romanzata storia di Pansa, non
per esaltare sangue e vendette bensì per capire gli eventi, ricordando i casi
di fascisti la cui fine risultò tragica com’era stata la loro vita.
Il seminatore d’odio don Tullio Calcagno, direttore della
razzista Crociata Italica e il suo mentore e protettore Farinacci,
violento squadrista della prim’ora e poi ras di Cremona, sono due delle prime
vittime ricordate dall’autore. Basta rileggere i proclami che apparivano su
quel foglio e si comprende perché per loro giunse inesorabile il momento del
giudizio.
Quindi
due torturatori che agivano per conto dei nazisti sotto la Repubblica Sociale:
Franco Colombo, organizzatore a Milano d’una polizia privata intitolata a Muti.
Pietro Koch, creatore di luoghi di reclusione e sevizie nella pensione
Jaccarino di Roma e nella villa Fossati di Milano. Con lui decine di accoliti
fra cui spiccavano Tela, Trinca e gli attori Valenti e Ferida, uccisi dai
partigiani dopo il 25 aprile. Scrive Massimiliano Griner nel suo documentato
libro La banda Koch
“…
Delle percosse, bastonature staffilate,
sul corpo ignudo con cinghie e catene: quelli erano metodi ordinari, che
qualsiasi aguzzino fascista poteva usare. Roba da dilettanti … Koch era per i
metodi straordinari, per le torture “scientifiche”. Era un esteta del
supplizio. Gli piaceva veder soffrire. Le grida di dolore dei torturati, gli
davano brividi di godimento, la vista del sangue lo inebriava”.
Sulle
dicerie di Pisanò, secondo cui durante i giorni della Liberazione un certo
numero di fascisti vennero gettati negli altiforni delle fabbriche di Sesto San
Giovanni, non c’è traccia non solo di documentazione, ma neppure di
testimonianze.
Brigate nere:
quei teschi sui berretti
Della morte assegnata a tali Dainotti, Baldi, Bianchi e poi
Adami, Fiorentini e altri uomini delle Brigate nere
spiegano ampiamente i motivi due passi tratti dal romanzo Uomini e no.
LXIII I morti di largo Augusto
non erano cinque soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto; e
quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle
Cinque Giornate, ai piedi del monumento. Cartelli dicevano dietro ogni fila di
morti: passati
per le armi. Non dicevano altro, anche i giornali non dicevano
altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni. C’era anche una
bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. La gente andava per
il largo Augusto e il corso di porta Vittoria fino a piazza delle Cinque
Giornate, vedeva i morti al sole su un marciapiede, i morti all’ombra su un
altro marciapiede, i morti sul corso, i morti sotto
il monumento, e non aveva bisogno di sapere altro. Guardava le facce morte, i
piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava i
teschi con le tibie incrociate sui berretti degli uomini di guardia, e sembrava
che comprendesse ogni cosa.
CII Quello dal grande cappello e dallo scudiscio scosse allora il capo.
Egli aveva capito. Fece indietreggiare i militi fino a metà del cortile, e
raccolse uno straccio dal mucchio, lo getto su Giulaj. “Zu! Zu! Piglialo!”
disse al cane. E al capitano chiese “Non devono pigliarlo?” Il cane Blut si era
lanciato dietro lo straccio, e ai piedi di Giulaj lo prese da terra dov’era
caduto, lo riportò nel mucchio. “Mica vorranno farglielo mangiare” Manera
disse. I militi ora non ridevano, da qualche minuto. “Ti pare?” disse il Primo.
“Se volevano toglierlo di mezzo” il Quarto disse “lo mandavano con gli altri
all’Arena”. “Perché dovrebbero farlo mangiare dai cani?” disse il Quinto.
“Vogliono solo fargli paura” disse il Primo. Il capitano aveva strappato a
Gudrun la pantofola, e la mise sulla testa dell’uomo. “Zu! Zu!” disse a Gudrun. Gudrun
si gettò sull’uomo, ma la pantofola cadde, l’uomo gridò, e Gudrun riprese in
bocca ringhiando, la pantofola. “Oh!” risero i militi. Risero tutti, e quello dal
grande cappello disse “Non sentono il sangue”. Parlò al capitano più da vicino
“No?” gli disse. Gli stracci, allora, furono portati via dai ragazzi biondi per
un ordine del capitano, e quello dal grande cappello agitò nel buio il suo
scudiscio, lo fece due e tre volte fischiare. “Fscì”, fischiò lo scudiscio.
Fischiò sull’uomo nudo, sulle sue braccia intrecciate intorno al capo e tutto
lui che si abbassava, poi colpì dentro a lui. L’uomo nudo si tolse le braccia
dal capo. Era caduto e guardava. Guardò chi lo colpiva, sangue gli scorreva
sulla faccia, e la cagna Gudrun sentì il sangue.”Fange ihn! Beasse ihn!” disse il capitano. Gudrun addentò l’uomo, strappò
dalla spalla.”An die Gurgel” disse il capitano.
____________________________________________________________
Qualche libro per approfondire
P. Spriano, “Storia del Partito Comunista Italiano”,
Einaudi, Torino, 1975
G. Bocca, “Storia dell’Italia partigiana”, Laterza, Bari,
1977
L. Borgomaneri, “Due inverni, un’estate e una rossa
primavera”, Angeli, Milano, 1985
P. Spriano, “Le passioni di un decennio”, Milano, 1986
C. Pavone, “Una guerra civile”, Bollati Boringhieri Torino,
1991
G. Ranzato, “Guerre fratricide”, Bollati Boringhieri,
Torino, 1994
G. Bocca, “Storia d’Italia nella guerra fascista”,
Mondadori, Milano, 1996
L. Borgomaneri, “Hitler a Milano”, Datanews, Milano, 1997
H. Woller, “I conti col fascismo”, Il Mulino, Bologna, 1997
L. Ganapini, “La Repubblica delle camicie nere”, Garzanti,
Milano, 1999
D. Gagliani, “Brigate nere”, Bollati Boringhieri, Torino,
1999
M. Franzinelli, “I tentacoli dell’Ovra”, Bollati
Boringhieri, Torino, 1999
F. Germinaro, “L’altra memoria”, Bollati Boringhieri,
Torino, 1999
R. Katz, “Morte a Roma”, Editori Riuniti, Roma, 1996
K. Klinkhamer, “Stragi naziste in Italia”, Donzelli, Roma,
1997
Aavv, Dizionario della Resistenza, Einaudi, Torino, 2000
Aavv, Atlante storico della Resistenza, Mondadori, Milano,
2000
M. Griner, “La banda Koch”, Bollati Boringhieri, Torino,
2000
B. Fenoglio, “Il partigiano Johnny”, Einaudi, Torino, 1978
B. Fenoglio, “I ventitre giorni della città di Alba”,
Einaudi, Torino, 1986
E. Vittorini, “Uomini e no”, Mondadori, Milano, 1986
V. Pratolini, “Cronache di poveri amanti”, Mondadori,
Milano, 1988
G. Fiori, “Uomini ex”, Einaudi, Torino, 1993
Qualche film per non dimenticare
“Roma città aperta”, Roberto Rossellini, 1945
“Paisà”, Roberto Rossellini, 1946
“Achtung! Banditi”, Carlo Lizzani, 1951
“La lunga notte del ’43”, Florestano Vancini, 1960
“Il terrorista”, Gianfranco De Bosio, 1963
“Rappresaglia”, Gorge Pan Cosmatos, 1973
“Salò e le 120 giornate di Sodoma”, Pier Paolo Pasolini,
1975
“Novecento”, Bernardo Bertolucci, 1976
“La notte di San
Lorenzo”, Paolo e Vittorio Taviani, 1982