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lunedì 30 marzo 2015

Yemen, smanie di supremazia

L’ennesimo fronte di crisi internazionale in Medio Oriente, apertosi nello Yemen con l’intervento delle forze che partecipano al “Decisive Storm”, giustifica la sua azione col secolare contrasto fra le famiglie religiose sunnita e sciita. Il richiamo è parzialmente confessionale e teologico, riguarda maggiormente l’organizzazione del potere sociale negli stati - lo Yemen è fra questi - dove i due gruppi vivono fra cento e uno contrasti. Un’organizzazione di forza non solo e non tanto interna ma regionale, che rappresenta da tempo la battaglia per la supremazia geopolitica con ampi risvolti economici fra Arabia Saudita e Iran. Primi attori d’un conflitto a distanza lungo quaranta e più anni, ora rinfocolato da propri e altrui pruriti. Quello del Califfato islamico non è poca cosa, vista l’amplissima area interessata, seppure con puntate finora solo terroristiche in Nord Africa; più la voglia di protagonismo d’un gigante frustrato qual è l’Egitto, di cui la casta militare al potere è il motore che si barcamena fra i sogni di gloria (sempre molto presunti) dei due decenni Cinquanta-Sessanta e un presente irto di difficoltà. Il presidente-generale Sisi, nell’assise sunnita che ha di recente discusso del supporto all’intervento tempestoso contro i rivoltosi Houthi, ha proposto di creare un esercito dei Paesi arabi sunniti, 40.000 uomini da sbarcare sul territorio yemenita, accanto ai raid aerei cui partecipa una coalizione di dieci alleati e al fronte navale dislocato dal Mar Rosso a tutto il Golfo di Aden e Mar Arabico.

Sisi cerca da mesi di accreditarsi come politico di riferimento in Medio Oriente, lo fa per rafforzare la posizione verso la metà degli egiziani che l’hanno votato e s’aspettano cambiamenti in una nazione rimasta economicamente ferma dopo il suo avvento. Si fa bello con idee e progetti, quasi tutti di matrice finanziaria saudita. La dinastia di Riyad fa pesare queste elargizioni che devono fare i conti con la sicurezza locale umiliata dall’escalation degli attentati, vera spina nel fianco per la credibilità di uomo forte che Sisi s’è cucita addosso. Del resto la spietata repressione degli oppositori sta diventando un boomerang e offre ai jihadisti alleanze col salafismo combattente e con quella gioventù islamista che non trova spazi in una militanza pubblica e legale. Ma la spinta di Sisi verso l’avventura yemenita non è guidata solo da un egocentrismo con cui vuole distrarre l’attenzione e rivolgerla ad altri obiettivi. Esistono precise necessità legate all’economia che deve produrre effetti positivi per le disastrate casse statali. Il divertificio dei resort del Mar Rosso è una realtà messa a repentaglio dal jihadismo diffuso nel Sinai, però potrebbe vivere un eguale sconquasso con un conflitto internazionale portato in quelle acque. Certo le coste dorate del turismo sono a duemila chilometri dal nuovo fronte, concentrato sul territorio yemenita. Fra i due pericoli il presidente egiziano sembra optare per il “male minore” della missione bellica.


Anche perché un’altra attenzione l’establishment del Cairo la rivolge a ciò che transita sul Mar Rosso: il flusso di greggio e merci varie che attraverso Suez viaggia verso Occidente. Oltre il progetto (sempre sostenuto coi petrodollari sauditi) d’un raddoppio del Canale, l’attuale  continua a registrare incrementi commerciali con relative entrate. Le statistiche d’inizio 2015 parlano d’un aumento del 3,1% di tutto il traffico marittimo e dell’8,9% di quello mercantile. Nello scorso gennaio (fonte Infomar) le merci imbarcate sui cargo in transito hanno sfiorato i 70 milioni di tonnellate. I doganieri di Suez sorridono, e con loro i militari della società che controlla e guadagna sui dazi. Rischiare una crisi destabilizzante in un’area sempre vitale per il commercio fra Oriente e Occidente è considerata da tutti una follìa. Il nemico iraniano, fronteggiato in Bahrein dalla Quinta Flotta Usa, difficilmente potrebbe comparire all’orizzonte del Golfo di Aden, dove la situazione instabile a causa delle incursioni corsare vede la presenza di fregate di molti Paesi occidentali. Però l’idea che un acuirsi dell’attuale crisi geopolitica possa mettere in pericolo i traffici mercantili, ben oltre i taglieggiamenti dei pirati somali o simili, conduce la dinastia Saud e la casta militare egiziana a soffiare sui venti di guerra. Lo spettro iraniano è agitato da entrambi come fantasma economico e strategico. Che ovviamente ripone al centro la questione del nucleare di Teheran, un nervo scoperto su cui i Grandi rilanciano il dibattito.

sabato 28 marzo 2015

Repubblica turca, l’ora dei veleni

Bülent Arinç, il vicepremier turco che non vuol far ridere le donne in pubblico, almeno così dichiarò l’estate scorsa in una frase rimasta celebre, critica Erdoğan per i ripetuti tentativi di forzare la mano spingendo verso una trasformazione della Repubblica da parlamentare a presidenziale. Arinç, fondatore come l’ex capo dell’esecutivo diventato presidente del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, considera queste spinte iniziative autoritarie con cui si fortifica solo un enorme potere personale, alla maniera di Putin. I reiterati interventi critici verso un politico che si ritiene un insostituibile perno del sistema turco stanno ormai assumendo contorni imbarazzanti: quasi ogni pronunciamento presidenziale viene setacciato con cura dal collega-rivale che, pur non mostrando un carisma pari a Erdoğan, può vantare un buon seguito in una delle zone industriali del Paese. Si tratta dell’area di Bursa, dove il presidente proprio grazie ai buoni uffici di Arinç s’è creato uno zoccolo duro di sostegno fra quei lavoratori e piccoli imprenditori, che nell’ultimo quindicennio hanno spinto in avanti la locomotiva economica turca.


L’intraprendente Arinç mette i bastoni fra le ruote anche al recente rilancio di contatti fra l’Atatürk islamico e Öcalan, interrotti due anni or sono e rimasti in crisi dopo il ritiro dal ruolo e da un possibile ingresso in politica del capo del Mıt Fidan.  Questi è stato un collaboratore fidatissimo di Erdoğan che rimase interdetto alla notizia delle dimissioni. La ripresa di colloqui col leader kurdo prigioniero, oltre a riaprire i contatti sull’annosa questione della copiosa minoranza, potrebbe consentire a Erdoğan di ottenerne l’appoggio parlamentare al possibile disegno di legge presidenzialista per il quale l’Akp non ha la maggioranza assoluta (gli mancano una cinquantina fra seggi e voti). Arinç ha ultimamente bacchettato Erdoğan perché non ha mantenuto le promesse sul suo ruolo ma s’è trovato aggredito da un altro fedelissimo del presidente: il sindaco di Ankara Gökçek, che lo accusa d’essere diventato un membro del movimento Hizmet, il gruppo con cui Fetullah Gülen lancia attacchi al sistema erdoğaniano. Veleni ricambiati: establishment corrotto e autoritario da una parte, golpismo da Stato parallelo dall’altra per un panorama politico rissosissimo, seppure all’apparenza non deteriorato. Le consultazioni di giugno preparano scontri infuocati e incrociati.

Nuove condanne ai nemici d’Egitto

Fra gli ultimi condannati alla pena capitale dall’Alta Corte egiziana c’è l’ennesimo nemico della nazione: tal Hany Amer, di mestiere informatico, di sponda politica islamista dell’ala dura di Ansar Beit al-Maqdis. E’ accusato d’aver preso parte all’assalto omicida svoltosi contro un check-point dell’esercito esattamente un anno fa. L’avvocato di Amer contesta accusa e sentenza, evidenziando che l’assistito non era in condizione di attaccare nessuno poiché da oltre tre mesi era rinchiuso nella prigione militare di Azouli, luogo di detenzione illegale e tortura, presso il campo di Galaa a 100 km nord-est dal Cairo. Alla contestazione di parte non hanno finora risposto né giudici né l’apparato militare. Scosse elettriche nei punti più sensibili del corpo, percosse, affissioni per i polsi dopo spoliazione totale, getti d’acqua gelida sul corpo e tecniche di ‘annegamento’ sono le pratiche utilizzate dai carcerieri secondo le testimonianze raccolte da Amnesty International, che considera l’attuale situazione repressiva la più dura vissuta dall’Egitto moderno. I familiari di Amer sostengono che il congiunto sia diventato un capro espiatorio per le sue idee politiche vicine a un noto predicatore salafita e lo si accusa – peraltro in palese contraddizione di tempi e fatti – perché nell’episodio in questione le indagini sono cadute nel vuoto. E’ un comportamento diffuso negli ultimi mesi, che mette in correlazione oppositori politici con la crescente serie di attentati di matrice jihadista accaduti in diverse città.


La galera speciale dove Amer è stato rinchiuso è una delle decine (parecchie non sono state rivelate) dov’è segregato un numero di oppositori che secondo stime approssimative oscilla fra le 22.000 e 41.000 unità. I parenti di centinaia di loro, taluni arrestati dall’estate 2013, non hanno mai avuto notizie e ne denunciano la sparizione. Il ministero dell’Interno e gli organi di giustizia non rispondono agli appelli dei cittadini né alle domande di organismi che si occupano di diritti umani. Mesi fa il quotidiano inglese The Guardian intervistò un paio di detenuti usciti da quell’inferno che narrarono condizioni e trattamenti finiti nei dossier di Human Rights Watch. “Sei qui, ma non risulti - testimoniavano i due - non c’è passaggio documentato della tua presenza. Se crepi per quello che ti fanno nessuno lo saprà mai”. Sicuramente una parte dei prigionieri di questi centri sono salafiti, alcuni sostenitori d’un fondamentalismo settario, e jihadisti prelevati nelle retate compiute dall’esercito nel Sinai, in certi casi arrestando decine di membri di tribù beduine accusati di fare da basisti ai nuclei di guerriglieri. Ci sono anche militanti della Fratellanza Musulmana finiti fuorilegge e, come ha denunciato l’attivista Alaa al Fatah, condannato a cinque anni di reclusione, giovani oppositori laici al regime di Sisi che non seguono l’Islam politico. Negli arresti di massa compiuti durante la grande repressione con la strage davanti e dentro la moschea di Rabaa fra i morti e gli incarcerati c’erano anche semplici passanti.

mercoledì 25 marzo 2015

Afghanistan, presenza duratura

In barba a ogni tattica diversificatrice, che nei mesi scorsi l’ha condotto al cospetto del temuto Pakistan e anche a sondare l’ipotesi d’un rilancio di trattative coi talebani interni (rete di Haqqani e alleati), il presidente afghano Ghani ha ripreso la strada maestra tracciata dal grande tutore statunitense. Nell’intervento tenuto ieri alla Casa Bianca ha avallato la dichiarazione del presidente americano che vuole mantenere sul territorio un certo numero di suoi soldati. Novemilaottocento è stato precisato, senza chiarire se questi si sommano ai tredicimila fra marines e specialisti della preparazione antiguerriglia che, secondo il Bilateral Security Agreement, sarebbero rimasti in terra afghana sino al 2016 e oltre. Il motivo addotto sono ovviamente le ragioni di sicurezza che evidenziano l’impreparazione del pur cospicuo esercito locale, spesso infiltrato da miliziani talebani autori di agguati dall’interno, vestendo la divisa delle Forze armate. Nelle settimane seguite all’annuncio del ritiro le vittime americane erano diminuite, rilanciando la presenza potrebbero ricrescere. Ghani ha ringraziato le Forze Armate alleate per il sacrificio di sangue passato e futuro a favore della nazione afghana (sic).


S’è poi barcamenato nell’affermazione che la copiosa partenza delle truppe Nato dal proprio Paese non ha prodotto quel collasso del sistema che era stato vaticinato da alcuni osservatori internazionali. Un concetto antitetico ai timori sulla sicurezza che hanno spinto Obama a fermare altri militari e Ghani ad accettarne la mossa, come lui stesso ha dichiarato per “interessi e sforzi collettivi”. Questa disponibilità di Kabul alle decisioni americane frutteranno un ulteriore aiuto di 800 milioni di dollari come fondo per le Forze armate afghane che ormai ammontano a 350.000 unità. A suggellare l’identificazione coi suggerimenti d’Oltreoceano giunge anche la definitiva formazione dell’esecutivo che verrà ufficializzato il 1° aprile. Fra i sedici nuovi ministri anche quattro donne: Dilbar Nazari agli Affari femminili, Salamat Azimi al dicastero antinarcotici, Farida Momand all’educazione, Nasrin Oryakhel al lavoro e affari sociali. Le prime due sono uzbeke come il vicepresidente e signore della guerra Dostum, le restanti risultano sostenute da Ghani o molto vicine alla sua fazione.

venerdì 20 marzo 2015

Assedi, trincee, crociati

Fra i commenti di taluni opinion leader di blasonati quotidiani nostrani sulla strage in Tunisia e il pericolo Isis scegliamo quelli de La Repubblica del 19 marzo e gli odierni de Il Corriere della Sera. Al cospetto degli imbarazzati vuoti dei Paesi dell’Unione Europea, all’inesistenza d’una politica internazionale unitaria su scala globale e pure locale, alla goffaggine autolesionista d’interventi compiuti (Libia) o caos lasciati deteriorare (Siria e Iraq) Gad Lerner non trova di meglio che riparare in una patriottica “linea del Piave”. Così la definisce in chiusura del suo articolo comparso sul quotidiano diretto da Ezio Mauro. Il titolo “Nella trincea del Mediterraneo” è già esplicativo dell’orientamento di chi scrive.
“… Fermarli (i jihadisti) comporta un’assunzione di responsabilità troppo a lungo rinviata. Un rinvio di cui si comprendono le ragioni: siamo turbati dalle implicazioni militari della scelta che s’impone al nostro governo e all’Unione Europea (…) Quando i nostri concittadini vengono presi in ostaggio a centinaia, e l’Europa viene sospinta con ferocia a considerare zone d’accesso proibito la sponda meridionale del mare in cui si bagna, è evidente che un’azione di polizia internazionale diviene imperativa. E che l’Italia, diretta interessata, viene chiamata dalla geografia a esserne protagonista”.
“… La resistenza coraggiosa di una società civile tunisina che condivide con noi i valori del pluralismo e della laicità, ha lacerato al suo interno la Fratellanza musulmana, trascinando una parte cospicua degli integralisti a partecipare al processo costituzionale”.   
“L’Algeria vent’anni fa ha vissuto un martirio con centomila morti, interi villaggi massacrati all’arma bianca dai tagliagole del Gia. E quell’ecatombe, anticipatrice della guerra in corso oggi, venne scandalosamente favorita dalla nostra indifferenza (…) fino a che l’esercito algerino non è riuscito a debellare i jihadisti in un bagno di sangue”.
“La scelta militare è imprescindibile, e al tempo stesso ne avvertiamo tutti i limiti, perché è chiaro che in questo conflitto le implicazioni culturali sono altrettanto decisive. (…) Le insidie di un’azione di polizia internazionale fanno tremare le vene ai polsi. Ma tanto per cominciare, se la minaccia libica non fosse bastata ancora a smuoverci, la difesa della Tunisia come ponte d’unione della democrazia e del Mediterraneo è diventato da ieri una nuova strategica linea del Piave”.

Guerra, dunque. Giustificata dal terrore e dalle stragi verso i civili, che ahinoi vengono perpetrate quotidianamente, anche da “Stati terroristi” non presi però in considerazione da Lerner. Cosa che non sminuisce l’efferatezza e il pericolo dell’Islam fondamentalista seminatore di morte, però sembra trattarsi d’un invito interventista senza strategie né piani che può somigliare per avventatezza proprio all’ultima avventura libica, cui lo stesso autore rivolge una riflessione tutt’altro che positiva (“un intervento nel magma del deserto delle tribù libiche, rischia di trasformarsi in una trappola”). E allora? Lì la ribellione, contro un liberatore diventato nei decenni un despota, fu cavalcata per rincorrere biechi interessi di parte del capitalismo (francese) che rappresenta un fantasma mai morto, su cui gioca la sua partita la propaganda antioccidentale del Califfato. Che sì, propone tutto il suo oscurantismo manipolando la scrittura del libro, denunciata da tanti islamici, ma si fa forte di quel colonialismo di ritorno che proprio la Francia persegue nell’amato e sfruttato Maghreb. Basta ripercorrere la storia passata e recente proprio di Tunisia, Algeria, Marocco e scoprire come tuttora, a decenni da indipendenze conquistate da quei popoli in certi casi con enorme spargimento di sangue, lo spolpamento dei beni nazionali stia proseguendo. L’esempio delle risorse energetiche è fin troppo scontato, non trattato, tanto per fare un nome, dalla Total come negli anni Cinquanta, ma sempre con intenzioni mai galanti. Anche perché talune leadership, l’esempio stavolta lo spostiamo in Tunisia sui laici provenienti dalla casta militare Bourghiba e Ben Ali, dietro la maschera dell’apertura e dell’occidentalizzazione favorivano oligarchie straniere e clan familiari. Altrettanto fa la monarchia marocchina che dalla Veolia, impiegata in ogni genere di servizi, riceve non poche prebende.

Sono trascorsi decenni, straordinari per l’indipendenza nazionale e le conquiste rappresentative delle genti del Maghreb, ma restano indelebili   macchie d’imperialismo, che nell’immaginario culturale hanno il proprio peso. Si pensi ai coloni francesi d’Algeria, ricordati col nomignolo di pieds-noirs, di cui Albert Camus fu figura nota per l’impatto culturale. Costoro consideravano la terra in cui erano nati la loro terra, e solo la rinuncia alla grandeur cui De Gaulle fu costretto dall’estenuante guerra di Liberazione pose fine ai dolorosi contrasti. Minacciati dal nazionalismo arabo che gli raccomandava “la valigia o la bara”, gli ex coloni vissero un esodo verso una Francia che faceva difficoltà ad accoglierli. Anche perché erano oltre un milione. Solo la destra militarista e sciovinista li abbracciava.  Scriveva Camus ne “La rivolta libertaria”: “Un'Algeria costituita da insediamenti federati e legati alla Francia mi sembra preferibile, senza confronto possibile rispetto alla semplice giustizia, a un'Algeria legata a un impero islamico che per i popoli arabi non farebbe che sommare miserie alle miserie, sofferenze alle sofferenze, e che strapperebbe i francesi d'Algeria dalla loro patria naturale. Se l'Algeria che io spero conserva ancora una possibilità di realizzarsi, desidero aiutarla con tutte le mie forze. Ritengo invece di non dover sostenere nemmeno per un istante e in alcun modo la costituzione dell'altra Algeria. Se invece si formasse questa sarebbe per me un'immensa disgrazia, e ne dovrei trarre tutte le conseguenze, io come milioni di francesi. Ecco, molto sinceramente, come la penso”. Chiediamoci come poteva venir percepito il laico, marxista e poi anarchico scrittore dalla popolazione algerina dei Sessanta e come lo possano considerare due generazioni seguenti, vissute comunque in una nazione laica. Che negli anni Novanta - come Lerner rammenta - visse l’incubo degli sgozzamenti praticati dai militanti del Gia, quando costoro intrapresero una lotta armata senza quartiere seguita al disconoscimento dell’avanzata elettorale. Lo scippo d’un successo conseguito nell’urna dal Fronte di salvezza islamico, usando i metodi della democrazia borghese, la quale, superata, rifiutò di riconoscere le regole da lei dettate e accettare l’avversario.


E’ il black out vissuto da un’altra “Primavera tradita”, l’egiziana, con la Fratellanza massacrata e ridotta al silenzio, probabilmente perché ritenuta integralista, come Lerner definisce quella tunisina di Ennahda, che però si sarebbe redenta espellendo la parte spuria e guerrigliera. Un fenomeno probabile, perché in ogni componente politica esiste chi può estremizzare il suo credo. Forse l’estremizza ancor più quando vede gli spazi d’agibilità ridursi a zero, come accade da due anni in Egitto. Sull’irrisolta tara del colonialismo che è, ribadiamo, tuttora la piaga più purulenta del modernismo nordafricano, virato presto da autodeterminazione a nuovi gioghi economici e oligarchie locali. Queste non sembrano amare i popoli governati, sia perché continuano ad affamarli non redistribuendo ricchezza, sia perché s’identificano con l’Occidente che agli occhi d’un maghrebino bisognoso, spinto sui barconi della disperazione, appare quantomeno ambiguo e usurpatore come l’establishment che governa. Chi invece non ha dubbi è Ernesto Galli della Loggia. E con lui Pierluigi Battisti e la direzione de Il Corriere della Sera. Il primo reclama, è ora, l’esercito dell’Unione europea “E con veri capi politici: gli unici che nei momenti cruciali possono fare scelte coraggiose, costruendo altresì attorno ad esse il consenso necessario”. L’altro, col vittimistico stilema che lo contraddistingue, pone domande retoriche: “Che colpa ci vogliamo dare? … la Siria e i duecentomila morti ammazzati da Assad, … se qualche qualche giovane musulmano in Francia fa una carneficina, … se ammazzano gli ebrei in una pizzeria di Gerusalemme, … se irrompono in un dibattito in Danimarca e danno l’assalto alla Sinagoga…” Se i turisti crepano nel museo che stavano visitando. Entrambi assolvono l’Occidente, che a loro dire non ha colpe (“invece le menti migliori delle nostre generazioni spendono la loro sottile e ammirata intelligenza a dire che è <colpa nostra>, che <ce la cerchiamo>”). Entrambi chiedono di rompere l’assedio e…? La saggezza, oltre che un briciolo di strategia, suggerirebbe di tenere i piedi in terra e cercare di capire la via. Galli della Loggia e Battista sicuri la indicano.