L’ennesimo fronte di crisi internazionale in Medio Oriente, apertosi nello Yemen con l’intervento delle forze che partecipano
al “Decisive Storm”, giustifica la sua azione col secolare contrasto fra le
famiglie religiose sunnita e sciita. Il richiamo è parzialmente confessionale e
teologico, riguarda maggiormente l’organizzazione del potere sociale negli stati
- lo Yemen è fra questi - dove i due gruppi vivono fra cento e uno contrasti.
Un’organizzazione di forza non solo e non tanto interna ma regionale, che
rappresenta da tempo la battaglia per la supremazia geopolitica con ampi risvolti
economici fra Arabia Saudita e Iran. Primi attori d’un conflitto a distanza
lungo quaranta e più anni, ora rinfocolato da propri e altrui pruriti. Quello
del Califfato islamico non è poca cosa, vista l’amplissima area interessata,
seppure con puntate finora solo terroristiche in Nord Africa; più la voglia di
protagonismo d’un gigante frustrato qual è l’Egitto, di cui la casta militare
al potere è il motore che si barcamena fra i sogni di gloria (sempre molto
presunti) dei due decenni Cinquanta-Sessanta e un presente irto di difficoltà.
Il presidente-generale Sisi, nell’assise sunnita che ha di recente discusso del
supporto all’intervento tempestoso contro i rivoltosi Houthi, ha proposto di
creare un esercito dei Paesi arabi sunniti, 40.000 uomini da sbarcare sul
territorio yemenita, accanto ai raid aerei cui partecipa una coalizione di
dieci alleati e al fronte navale dislocato dal Mar Rosso a tutto il Golfo di
Aden e Mar Arabico.
Sisi cerca da mesi di accreditarsi come politico di riferimento in Medio Oriente, lo fa per rafforzare la
posizione verso la metà degli egiziani che l’hanno votato e s’aspettano
cambiamenti in una nazione rimasta economicamente ferma dopo il suo avvento. Si
fa bello con idee e progetti, quasi tutti di matrice finanziaria saudita. La
dinastia di Riyad fa pesare queste elargizioni che devono fare i conti con la
sicurezza locale umiliata dall’escalation degli attentati, vera spina nel fianco
per la credibilità di uomo forte che Sisi s’è cucita addosso. Del resto la
spietata repressione degli oppositori sta diventando un boomerang e offre ai
jihadisti alleanze col salafismo combattente e con quella gioventù islamista
che non trova spazi in una militanza pubblica e legale. Ma la spinta di Sisi
verso l’avventura yemenita non è guidata solo da un egocentrismo con cui vuole
distrarre l’attenzione e rivolgerla ad altri obiettivi. Esistono precise
necessità legate all’economia che deve produrre effetti positivi per le disastrate
casse statali. Il divertificio dei resort del Mar Rosso è una realtà messa a
repentaglio dal jihadismo diffuso nel Sinai, però potrebbe vivere un eguale
sconquasso con un conflitto internazionale portato in quelle acque. Certo le
coste dorate del turismo sono a duemila chilometri dal nuovo fronte,
concentrato sul territorio yemenita. Fra i due pericoli il presidente egiziano
sembra optare per il “male minore” della missione bellica.
Anche perché un’altra attenzione l’establishment del Cairo la rivolge a ciò che transita sul Mar Rosso: il flusso di
greggio e merci varie che attraverso Suez viaggia verso Occidente. Oltre il
progetto (sempre sostenuto coi petrodollari sauditi) d’un raddoppio del Canale,
l’attuale continua a registrare
incrementi commerciali con relative entrate. Le statistiche d’inizio 2015
parlano d’un aumento del 3,1% di tutto il traffico marittimo e dell’8,9% di quello
mercantile. Nello scorso gennaio (fonte Infomar) le merci imbarcate sui cargo
in transito hanno sfiorato i 70 milioni di tonnellate. I doganieri di Suez
sorridono, e con loro i militari della società che controlla e guadagna sui
dazi. Rischiare una crisi destabilizzante in un’area sempre vitale per il
commercio fra Oriente e Occidente è considerata da tutti una follìa. Il nemico
iraniano, fronteggiato in Bahrein dalla Quinta Flotta Usa, difficilmente
potrebbe comparire all’orizzonte del Golfo di Aden, dove la situazione
instabile a causa delle incursioni corsare vede la presenza di fregate di molti
Paesi occidentali. Però l’idea che un acuirsi dell’attuale crisi geopolitica
possa mettere in pericolo i traffici mercantili, ben oltre i taglieggiamenti
dei pirati somali o simili, conduce la dinastia Saud e la casta militare
egiziana a soffiare sui venti di guerra. Lo spettro iraniano è agitato da
entrambi come fantasma economico e strategico. Che ovviamente ripone al centro
la questione del nucleare di Teheran, un nervo scoperto su cui i Grandi
rilanciano il dibattito.