L’atteso
contatto c’è stato. Non ratificato dall’auspicata stretta di mano ma egualmente
efficace perché le voci sono piene di buone intenzioni. E’ stato il più giovane
Barack Obama a telefonare all’omologo Hassan Rohani. C’è chi giura che i
presidenti di due Stati fino al mese scorso a rischio conflitto avranno un
faccia a faccia, magari a breve dopo il 15-16 ottobre quando a Ginevra i
funzionari di Teheran dovranno presentare il rinnovato piano nucleare “a uso
esclusivamente civile”. E’ il frutto dei buoni propositi già espressi negli interventi
dei giorni scorsi al Palazzo di Vetro dell’Onu e di questo quarto d’ora
telefonico diventato storico con cui i due capi di Stato sanciscono un
riavvicinamento dopo 34 anni di silenzi, accuse, minacce, operazioni
d’Intelligence e venti di guerra. Jimmy Carter e Reza Pahlavi, il volto d’un
altro Iran, furono gli ultimi uomini immagine a colloquiare dalle due sponde.
Seguirono la fuga del sovrano-dittatore, il rientro in patria di Khomeini, la Rivoluzione
islamica, la crisi dei 444 giorni scaturita dall’occupazione dell’Ambasciata
statunitense a Teheran da parte dei giovani studenti iraniani che sequestrarono
un manipolo di funzionari statunitensi. Durante la svolta riformista di fine
anni Novanta nel paese islamico che aveva condotto alla carica di presidente
Khatami, le tensioni s’erano solo parzialmente attenuate.
Ripresero
focose con la salita al potere della fazione dei Guardiani della Rivoluzione
sostenitori di Ahmadinejad. Due i motivi del contendere: uno ideologico, legato
ai pronunciamenti negazionisti del presidente-basij riguardo alla Shoah,
l’altro pratico che coinvolge la corsa alla produzione nucleare iraniana
accusata da Washington d’essere una copertura per l’acquisizione dell’arma
atomica. In entrambe le questioni lo zampino di Israele, principale alleato
statunitense in Medio Oriente e acceso persecutore, assieme alla monarchia
saudita, delle mire egemoniche regionali di Teheran. Naturalmente anche varie
amministrazioni della Casa Bianca, repubblicane o democratiche non ha mai fatto
differenza, hanno sposato la tesi del contrasto aperto con la nazione che
diventerà il fulcro del bushano “Asse del Male”, per quanto Ronald Regan non
tenero verso gli ayatollah quand’era ancora in vita il Ruhollah Khomeini, celasse
dietro i proclami favorevoli all’embargo ben altri interessi lobbisti della sua
nazione, come rivelò l’affaire Iran-Contras. Eppure questa è già storia passata
e conosciuta dei rapporti fra Usa e Iran che nei tre decenni di ‘muso duro a
distanza’ vestivano rispettivamente i panni del gendarme del Medio Oriente (e del
mondo) e di avanguardia del fronte antimperialista che surclassava mai realizzate
rivoluzioni marxiste in loco per venire poi insidiato dal Jihad qaedista.
L’attuale
avvicinamento Stati Uniti-Iran, magari non stravolgerà preconcetti e intenti
presenti fra le due dirigenze, ma sta ricevendo consensi internazionali diffusi
sia per superare attriti ed embargo sul nucleare di Teheran, sia per attenuare la
crisi siriana, attuali questioni che minacciano la sicurezza e la pace in vasta
area. In entrambe le nazioni qualcuno rema contro: la tivù di Stato iraniana
non ha riportato per intero le risposte del proprio presidente ne ha
sottolineato i passi meno aperti, a una diffusione più fedele della cronaca ha
provveduto direttamente l’ufficio di presidenza di Rohani. Invece di futuro probabile
“faccia a faccia” ha parlato un consigliere della Guida Suprema Khamenei che
suggella in tal modo il suo benestare all’operato del presidente riformista. Anche
qualche commentatore d’Oltreoceano non gioisce per il riavvicinamento delle
parti, facendo notare che si tratta dell’ennesima tattica per lenire i dolori economico-politici
delle sanzioni e “solo con l’effettiva chiusura dell’impianto di acqua-pesante
di Arak si potrà ricevere un segnale d’inversione di tendenza”. Costoro non vogliono
tenere in nessuna considerazione le parole con cui Rohani si presenta al mondo:
“Non abbiamo mai scelto la via dell’inganno, non abbiamo segreti”.