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venerdì 10 maggio 2024

India, una Costituzione di troppo

 

L’ennesimo boccone avvelenato dell’acerrima campagna elettorale indiana, in corso anche durante le settimane di voto, riguarda due temi che potrebbero essere i nostri: redistribuzione della ricchezza e modifica della Costituzione. I due elementi non sono scollegati nell’India ricchissima per alcuni e poverissima per tanti. Il premier e leader Modi non sfugge all’abitudine in voga fra i populisti a ricoprire incarichi istituzionali senza mettere da parte la direzione politica del suo schieramento, e piega le mosse ufficiali agli interessi di parte. Così sostiene che i discorsi lanciati da più d’un partito dell’opposizione, riunita nel cartello India, su un possibile finanziamento sociale ottenuto con parte dei grandi capitali interni (quelli ad esempio della coppia chiacchieratissima dei magnati Adani e Ambani e di un’altra ventina di Paperoni, sono stati calcolati circa duecento miliardi di dollari) favorirebbe un passaggio di ricchezza dalle famiglie hindu a quelle islamiche. E’ ovviamente una boutade, ma fa presa fra chi legge la realtà con gli occhi di una politica malata di fanatismo fondamentalista. La realtà affrontata da studi di settore, ripresi dal Partito del Congresso con l’intento d’intervenire sulle caste e sotto-caste tuttora presenti in quella società, parla di un 1% di cittadini indiani che detengono il 40% della ricchezza nazionale, contro un 50% di popolazione che non raccoglie neppure il 10% di quei beni. Ricercatori di settore sostengono che le odierne diseguaglianze sono più o meno quelle dell’epoca coloniale britannica. In tal senso il Partito del Congresso che ha governato per decenni non è esente da responsabilità, anzi. Eppure Rahul, attuale erede della dinastia Nehru-Gandhi, non demorde. Per lui affrontare la questione alla lunga renderà un servigio ai ceti poveri, al Paese che rilancerà due pilastri della moderna società quali sanità e istruzione, e anche al partito. I critici vedono nello spettro della redistribuzione la fuga di chi sarà disincentivato a investire in un’India più egualitaria, garante di diritti e foriera di un ascensore sociale. Su un punto che ha a che fare coi patrimoni: la proposta d’introdurre una tassa di successione sui beni immobili e non, c’è il dissenso di taluni economisti allarmati dall’attacco alla proprietà. 

 

Infatti la linea para liberista del Bharatiya Janata Party denuncia lo scippo che potrebbe subire chi col sudore della fronte ha messo su un patrimonio piccolo o grande che sia. La progressività nella tassazione è indicata come la strada migliore per non far mancare risorse economiche allo Stato e alle possibili riforme. Ma un ostacolo a eque riforme, dicono Gandhi, Yadav e Singh a nome di National Congress, Samaiwadi Party e Aam Aadmi Party, sono i favori governativi ai colossi miliardari di Mukesh Ambani, mister  90 miliardi di dollari, tanto la rivista Forbes ha calcolato il suo patrimonio, e Gautem Adami. Il primo è anche noto come “re del ferro” per il controllo da maggiore azionista di Reliance Industries Limited colosso siderurgico-meccanico, successivamente affermatosi anche nei settori della raffinazione e della petrolchimica. Settanta miliardi di dollari è stimato l’attuale il patrimonio di Adani Group, che di recente ha conosciuto un crollo azionario di decine di miliardi. Ne quotava 126 miliardi, ma dopo la comparsa del dossier diffuso da Hindenburg Research che accusava l’affarista, originario come Modi del Gujurat, di manipolazioni azionarie e frodi contabili il capitale si è contratto. Le conseguenti indagini predisposte dalla Corte Suprema di Delhi hanno bollato come poco credibile il rapporto della società di ricerca americana, e Modi, di cui Adani è aperto sostenitore, ha difeso a spada tratta il miliardario. Secondo il governo la vicenda non ha rappresentato solo un colpo alla sua impresa ma “un attacco alla nazione indiana”. Comunque il sogno elettorale del Bjp è strapazzare l’opposizione nelle urne e portare nella Camera bassa 400 deputati per cambiare la Costituzione. Un progetto che segue la cancellazione dell’autonomia nel Kashmir, la limitazione dei diritti umani, lo strisciante apartheid introdotto dal Citizenship Amendment Act. Un piano che vuole archiviare l’India tollerante e inclusiva pensata dai padri della patria Rejendra Prasad, Bhimrao Ramji Ambedkar che insieme a Nehru, Ghandi, Patel e alri avevano stilato la Carta entrata in vigore nel gennaio 1950. Ora Modi pensa al colpo di spugna, qualcosa che si respira anche in Italia dove si vogliono mandare in soffitta Calamandrei, Einaudi, Pertini, Parri e i loro princìpi.


giovedì 9 maggio 2024

Gaza, succursale in Sinai

 


Sul futuro dei gazesi della Striscia, ultimo avamposto di palestinesi straziati e perseguitati, non esiste solo l’interessata ‘protezione’ qatarina, turca, saudita, giordana che si rapporta a quanto Tel Aviv dispone e Washington protegge. Non c’è da cadere nella trappola del recente diniego sulle ultime bombe da massacro offerto dalla presidenza statunitense, si tratta dell’ennesima recita d’un candidato dai più dato per spacciato alla scadenza elettorale di novembre. Con o senza Netanyahu, che nella crisi in corso vince solo la palma del massacratore poiché non riesce né a cancellare Hamas né a riportare a casa i restanti prigionieri di Israele, il mondo che conta decide come selezionare e sezionare ulteriormente quella popolazione. Quanta farne restare accampata fra le macerie in attesa d’un prossimo business da ricostruzione, quant’altra trasferire altrove e dove. Il rilanciato progetto Sinai, già esaminato un ventennio addietro “a danno dell’Egitto”, ha ritrovato spazio nonostante la presunta ritrosia di Al Sisi di avere fra le scatole ribelli refrattari alle normalizzazioni. Il presidente-golpista deve ingoiare il rospo e accettare questa soluzione per conservare il posto di gala nella diplomazia internazionale e il riconoscimento di ‘uomo d’ordine’ in base al quale da un decennio ha patteggiato, ripulito e orientato l’area settentrionale di quella penisola. Già infestata dal jihadismo di Qaeda all’epoca di Mubarak e nuovamente visitata, col consenso tribale dei beduini, da gruppi che si rifacevano allo Stato Islamico, fino alla fase d’oro del Daesh siro-iracheno. Poi dal 2016 quelle presenze sono scemate anche perché i loro appoggi locali hanno mutato giro. In queste vicende una figura centrale è un soggetto, diventato imprenditore di successo grazie all’empatia di servizio creata col nuovo regime egiziano al quale arrivava da galeotto. Le sue vicende le ha narrate la testata Middle East Eye che ricordava i traffici da contrabbandiere di Ibrahim Gomaa Salem Hassan al-Organi e della sua tribù, i Tarabin, la più potente del Sinai. Oggi al-Organi ha cinquant’anni e un passato burrascoso. Ha conosciuto la galera per aver vendicato un fratello, come lui trafficante, ucciso dalla polizia. La vendetta consisteva in attacchi armati a poliziotti di frontiera con morti e sequestrati. 

 

Eppure negli antefatti del biennio 2004-2006 i membri del clan Organi si facevano passare per contestatori politici e mediatori con la Stato, addirittura si vantavano d’aver aperto la strada alla rivolta del 2011 che disarcionò Mubarak. Propaganda messa su nella nuova vita alla quale al-Organi era assurto diventando amico di Mahmoud, figlio di al Sisi, infilato dal padre nell’Intelligence delle Forze Armate per controllarla meglio. Facendo leva su relazioni claniste fra i Tarabin al-Organi mise su una propria truppa mercenaria che coadiuvava l’esercito del Cairo nel ripulire la regione dalle forze islamiste armate. A papà Sisi tutto questo andava benone e da lì gli affari d’impresa, che lo scaltro Ibrahim aveva avviato, s’ampliarono sempre più. Una sua società di appalti e costruzioni chiamata Figli del Sinai allargava il raggio d’azione, controllando permessi d’ingresso e d’uscita dalla zona con tanto di “pedaggio”, ovviamente illegale, imposto a merci e persone. E’ una situazione che si perpetua, lo denunciano le Ong che operano sul confine di Rafah verso la Striscia. Del resto avere gli al-Sisi a coprirgli le spalle ha reso l’ambizioso Orani ancora più intraprendente. Da lì l’exploit di diventare presidente della società Misr Sinai for Industrial Development and Investment che ha come azionista di maggioranza, guarda un po’, l’immancabile esercito del Cairo. I gazesi hanno imparato a conoscere gli interventi delle aziende affiliate all’Organi Group già in occasione delle ricostruzioni successive all’attacco israeliano denominato ‘Margine di Protezione’ (estate 2014, duemilatrecento vittime palestinesi e una discreta distruzione logistica). Dopo l’attacco del 2021 (250 vittime palestinesi) Organi s’è garantito un appalto edilizio di  500 milioni di dollari versati dalle casse egiziane. Da volpino del deserto Ibrahim dispone costruzioni e pure demolizioni, secondo i disegni dei suoi sponsor militari. E’ successo sul confine di Rafah, abbattendo case non colpite da bombe ma sventrate dai suoi bulldozer. Ora ci sarà da vedere dove gli recapiteranno decine di migliaia di gazesi sfollati. Intanto l’affarismo di famiglia prosegue con l’erede, il figliolo Essameldin, istradato nell’azienda che si vanta d’investimenti anche nel settore dell’accoglienza. Chissà se risulterà residenziale o semplicemente assistenziale verso i palestinesi strappati alla Striscia. 


martedì 7 maggio 2024

Elezioni indiane, Bharat a senso unico

Un esponente locale del partito Samajwadi durante un comizio che prepara il turno elettorale nell’Uttar Pradesh ha la malaugurata idea di ricordare agli elettori di fede islamica (in quello Stato ce ne sono oltre quaranta milioni) di fare una “jihad elettorale” per scacciare il Bharatiya Janata Party dal governo. Apriti cielo! Al presidente Modi non pare vero. Il suo staff coglie l’occasione e rilancia l’offensiva, per ora verbale ma che monta nella voglia di menar le mani. Dice il premier che quel voto è “pericoloso per la democrazia del Paese” come chi lo propone. La teoria coniata da tempo della corrosione interna della società hindu da parte dei musulmani, più prolifici di quest’ultimi, se non parla esplicitamente di sostituzione etnico-religiosa si collega all’altro cavallo di battaglia anti musulmano: il presunto progetto che conduce giovani islamici a corteggiare ragazze hindu per sposarle e convertirle ad Allah. Anche qui compare il termine jihad, per la precisione “Love jihad”. Sembra un paradosso, eppure la politica indiana è sempre più costellata di tali insinuazioni che raggiungono il parossismo con conseguenti escandescenze delle due comunità, scontri sanguinari in vari casi letali. Il ceto politico di governo cavalca questo tema per accentuare l’emarginazione della pur corposa minoranza islamica che coi suoi duecento milioni di cittadini costituisce poco meno d’un sesto dell’intera popolazione indiana. Finora anche parecchi musulmani hanno scelto di sostenere Modi percepito come uomo del popolo e impegnato a favore della gente. Comunque l’accentuazione delle posizioni su menzionate inizia ad allontanare il voto musulmano dal Bjp, un consenso che regge per l’idiosincrasia di tanti emarginati di ogni confessione nei confronti dello storico Partito del Congresso considerato statalista, familista e corrotto. Questo gruppo, di fatto l’avversario del Bjp più in vista, rimane il nemico da battere e gli strali di Modi e dei suoi soci contro Raul Gandhi si susseguono in ogni manifestazione. Il Congresso - dice il partito hindu - dietro il progetto del ritorno a un’India unitaria e solidale cela il disegno di nazionalizzare ogni cosa finanche il banchetto di vendita nel mercatino, le singole casupole in cui sopravvivono milioni di famiglie d’ogni religione, il moto-carrettino con cui si va a lavorare, la bici usata per spostarsi dall’indianino povero. La loro vittoria sarebbe un passo indietro nella storia e nell’economia, fa intendere il Bjp, proponendo l’ennesima sparata. Ma di esagerazioni ed esasperazioni sono pieni gli incontri pubblici e i dibattiti televisivi con un’accentuazione dei toni meschina e preoccupante perché montata dagli stessi politici, anche da coloro che ricoprono incarichi istituzionali. Ciò che gli odierni commentatori elettorali non ammettono è quando certe drammatizzazioni vengono diffuse da figure che dovrebbero avere il buon gusto di non esporsi perché rappresentano l’intera nazione, e Modi è in cima alla lista. Però il desiderio di polarizzare il clima politico, raccogliere i sostenitori non in base al programma, ma in contrapposizione e in odio agli altri: tutti gli avversari del Bjp, tutti i non hindu e i contestatori dell’hindutva e gli stranieri, porta l’elettorato del Bharat a considerarsi la sola  immagine del Paese che deve sbarazzarsi di quel che ha inquinato le radici, dall’era Moghul all’epoca coloniale, e indicare la via alla quale ogni indiano deve conformarsi. Società monocorde di certezze assolute, dunque, che non ammette diversità e pluralismi, ambiente soffocante che non vuole confronti né alternative. Le urne si muovono a milioni verso quest’orizzonte.

 

domenica 5 maggio 2024

L’omicidio Regeni è politico

 

Nel truce sequestro e sadico omicidio di Giulio Regeni, per il quale è in corso il processo solo italiano con imputati contumaci e governi del Cairo e di Roma latitanti, rivengono a galla molteplici fattori. I conosciuti e svelati depistaggi delle istituzioni egiziane, gli imbarazzati silenzi di quelle italiane, le ambigue presenze attorno allo speranzoso ricercatore: la tutor dell’università di Cambridge, l’amica cairota, un coinquilino avvocato, il losco sindacalista degli ambulanti (sui quali il dottorando raccoglieva dati) che l’avrebbe venduto ai mukhabarat della ‘National Security’. Di tutto si è scritto in questi anni. Da settimane ne dibatte la magistratura di Piazzale Clodio, osservando qualche aggiuntiva prova e reperto che gli inquirenti del nostro Paese sono riusciti, non senza difficoltà, a raccogliere in otto travagliati anni di rincorsa delle indagini. Spuntano anche ulteriori tracce, testimonianze solo di parte italiana di quegli agenti impiegati in trasferte d’investigazione, appunti presunti e/o taroccati perché in quest’omicidio politico dal sapore d’intrigo gli elementi che certamente possono aiutare il dibattimento non sopravanzano le uniche due certezze assolute: lo spietato assassinio del giovane, dopo il suo sequestro e le sevizie infertegli dall’Intelligence al servizio del presidente al Sisi, inseriti nel clima repressivo che già nei tre anni precedenti quel dannato 25 gennaio 2016, aveva prodotto centinaia di assassini di oppositori al regime. Oppositori considerati un pericolo per la sicurezza della nazione. Una sicurezza presunta e suggellata da leggi d’uno Stato che ha azzerato e incarcerato l’opposizione, seminando terrore e morte per le strade delle maggiori città d’Egitto. Questa repressione, proseguita dopo il delitto Regeni e tuttora in atto, impediva e impedisce manifestazioni di piazza, libera informazione, tormentava e tormenta, incarcerava e incarcera attivisti, sindacalisti, giornalisti, docenti, avvocati dei diritti, membri della società civile, funzionari di strutture internazionali addirittura costole delle Nazioni Unite.  

 

Davanti a tale desolante panorama nessuno s’è mosso, né prima né dopo questi omicidi. Che sono potuti  proseguire con sparizioni di giovani come Giulio di cui non s’è chiesto conto, dimenticandone la stessa identità. Riguardano gli scomparsi del Cairo e dintorni. I più “fortunati” fra i perseguitati sono finiti nelle tetre galere, qualcuno come Patrick Zaki ha sofferto ma è uscito dal circolo vizioso di arresto-scarcerazione-nuovo arresto ad libitum. Altri, seppur noti come Alaa Abdel Fattah, scontano anni di reclusione. Il caso Egitto non è certamente l’unico che evidenzia la meticolosa e preordinata criminalità statale. E’ un grave caso politico e geopolitico e mentre il primo elemento viene scansato dal sistema internazionale, il secondo diventa l’alibi per far finta di nulla poiché quel Paese e il suo discusso leader sono protagonisti della cronaca mondiale. Ieri con la creazione del fronte autoritario nel mondo arabo, oggi con le trattative per la crisi di Gaza. Sisi serve alla geopolitica armata e diplomatica, il suo operato interno non può venire né contestato né indagato. Di fronte all’assassinio di Regeni i giudici - solo italiani perché i colleghi del Cairo controllati dal regime si esentano dal procedere e collaborare per quel reato - seguono la via giudiziaria che non può essere politica. Ma la politica italiana, quella internazionale potrebbero indirizzare i propri occhi, le mani, le finanze – come peraltro fanno in altre occasioni – contro chi rompe la convivenza, chi non si presta a rapporti democratici, chi segue unilateralmente suoi disegni più o meno criminali. Eppure guardandosi attorno quest’approccio non esiste da tempo. E i tempi peggiorano. Ai familiari di Giulio, agli attivisti di sostegno alla sua memoria in cerca di giustizia forse il processo offrirà la condanna dei poliziotti sicari (Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahi), ma il regime è destinato a farla franca assieme al presidente al Sisi sorridente e sodale della nomenclatura italiana recente e attuale. 


 


venerdì 3 maggio 2024

Linea Durand, la nuova porta del jihadismo

 


C’è un confine, inventato dalla trascorsa storia coloniale britannica, che ha diviso un territorio finito nel tempo in due Stati. Il neonato regno afghano e la colonia indiana. Un accordo siglato nel 1893 stabilì le dimensioni del territorio diventato Afghanistan mentre a Oriente altra terra rientrava nella giurisdizione dell’India. Per secoli l’immensa area era stata denominata Pashtunistan, la terra del popolo pashtun che l’abitava. Dopo la firma apposta da sir Mortimer Durand, ministro degli esteri britannico per l’India e dal re afghano Abdul Rahman Khan si stabilì l’esistenza d’una frontiera di 2.640 chilometri che metteva varie tribù di pastori, agricoltori e anche guerriglieri al di qua e al di là di quella vergata sulle mappe e definita negli annali “Linea Durand”. Quel segno rappresentò uno strappo, offuscato dalle velleità del nazionalismo (in quel caso afghano) e dall’esistenza del colonialismo (britannico) che terminava la sua corsa due anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, piegato da un altro desiderio di nazione, la ciclopica nazione indiana nata dalla lotta contro l’imperialismo di Londra. Nel 1947 quel gran pezzo dell’India a ridosso dell’Afghanistan diventò Pakistan, Paese a maggioranza musulmano e abitato anche dai discendenti pashtun. Il tracciato divisivo fu rivendicato e riconosciuto ufficialmente più dal Pakistan che dall’Afghanistan, dove sia l’iniziale reggenza monarchica sia il successivo Stato repubblicano e poi Repubblica democratica d’impronta socialista non imponevano chiusure, consentendo ad abitanti, clan, famiglie imparentate e non, che vivevano, lavoravano, trafficavano a ridosso della Linea di attraversarla da est a ovest e viceversa senza formalità di sorta. Talune province afghane: Nangrahar, Khost, Paktika, Kandahar, Helmand risultavano i principali punti di attraversamento. In alcuni momenti storici si sono susseguiti irrigidimenti nei controlli voluti dai governanti di Islamabad per limitare gli andirivieni, specie quelli di combattenti armati.

 

Eppure durante la resistenza alle truppe sovietiche - intervenute dal dicembre 1979 per sedare i contrasti fratricidi delle fazioni del Partito Democratico del Popolo al potere a Kabul - i soldati pakistani tolleravano le ritirate tattiche dei mujaheddin oltre la Linea Durand. Dopo la guerra civile afghana (1992-96) e la nascita del primo Emirato talebano i rapporti fra i due Paesi si sono gradualmente incrinati, nonostante il comune denominatore religioso orientasse la politica da una parte e dall’altra della Linea. Ancor più dopo l’occupazione americana, con la missione militare Enduring Freedom e le successive della Nato (Isaf e Resolute Support), le tensioni fra governi e Paesi confinanti sono cresciute. Kabul accusava Islamabad d’ingerenza e di voler sfruttare a proprio vantaggio l’instabilità del sistema afghano, in quella fase posto sotto tutela statunitense creatrice e protettrice degli esecutivi-fantoccio di Karzai e Ghani. Il Pakistan, nel perenne contrasto con l’India, cercava nella terra di confine una propria profondità strategica, da sfruttare, ad esempio, in campo energetico coi progetti dei gasdotti che dal Turkmenistan avrebbero raggiunto il porto di Karachi,  attraversando varie province afghane senza conceder loro  nulla. Ma c’era anche chi remava contro. La chiacchieratissima Inter-Services Inteligence, l‘agenzia preposta alla sicurezza interna pakistana e al controspionaggio, ha intrapreso e continua a intraprendere doppiogiochismi e trame palesi e occulte sul sistema interno e internazionale. Sin dall’epoca del generale-dittatore Zia Ul-Haq, i militari pakistani rappresentano le eminenze grigie della politica, la condizionano e dettano volontà, se inascoltati e disattesi agiscono. In ogni modo. Con ogni mezzo, compreso il terrorismo praticato direttamente e fomentato. C’è un pezzo di storia recente che vede gruppi del fondamentalismo islamico, i Tehreek-e Taliban, compiere attentati commissionati dall’Isi o gestirli da sé per indebolire  i propri governi, quelli passati del clan Bhutto e pure quelli del premier para islamista Sharif. Insomma da parte pakistana gli attori sono molteplici. 

 

Alle formazioni del radicalismo religioso deobandi che nell’ultimo ventennio hanno fomentato il caos e seminato panico fra la gente senza mostrare un disegno preciso se non quello di difendere la gestione delle enclavi nel Waziristan e nelle Aree tribali di amministrazione federale, si aggiungono le milizie dell’Isis Khorasan attive proprio a cavallo della Linea Durand, la frontiera inesistente. Secondo loro un retaggio dell’imperialismo occidentale che la inventò, un ostacolo alla stregua degli Stati-nazione che aborrono, mentre rivogliono l’unità del Pashtunistan esso stesso nient’altro che un tratto dell’agognato nuovo Califfato in via di creazione. Più orientale e asiatico di quello sperimentato fra Siria e Iraq, ma con ulteriori potenziali protagonisti: i popoli tajiko, uzbeko, kirghizo, oltre a beluchi, afghani, pakistani e quant’altri. Un sogno. Secondo alcuni un delirio. Eppure è un progetto in divenire perlomeno nella propaganda armata a suon di stragi che dal 2016 insanguinano le terre lungo la Linea Durand. Quest’ultima fra l’altro da un po’ di tempo viene sbarrata. Iniziò sempre Islamabad chiedendo ai frontalieri passaporti e visti per passaggi fra est e ovest anche quotidiani. Mentre proseguiva e s’ampliava una struttura divisoria fatta di mura e cancellate. In realtà più dissuasive che separative. Il muro non supera i due metri di altezza, può scavalcarlo anche un bambino, se però i militari, messi a vigilarlo sempre più numerosi, non aprono il fuoco sul trasgressore. Di solito si tratta di soldati pakistani, nessun afghano dei governi filo occidentali voleva ostacoli sul confine, né li vogliono i taliban. La provincia di Khost è tuttora priva di barriere, nell’Helmand sono stati distrutti diversi chilometri costruiti. Il rimpatrio forzato di oltre mezzo milione di migranti e rifugiati afghani dalle zone che per diversi decenni li hanno accolti, come la città di Peshawar dove tuttora insistono enormi campi profughi, pone la scottante questione della chiusura degli spazi di accesso come un tema molto sentito dagli strati più poveri. Son loro a vagare sulla Linea lavorando nei campi un po’ qui un po’ là. Per costoro non esistono governi e Stati, cercano di raggranellare poche rupie per sfamare la famiglia, seguono chi gli offre un lavoro qualsiasi. S’accontenterebbero di quello, ma se il varco si chiude possono seguire chi offre denaro per un altro lavoro: piazzar bombe. L’Isis-K l’ha capito e provvede. Accanto a un reclutamento ideologico, ne attua uno mercenario. Pagare per uccidere. Uccidere per destabilizzare. Mentre il mondo dai falsi confini che cerca di chiudersi, a Oriente e Occidente, offre nuove leve a contraddizioni che si perpetuano.

martedì 30 aprile 2024

Voto indiano, prime tendenze

 


Anche in India si vota meno? E’ presto per dirlo, anche perché la Commissione Elettorale non ha lanciato nessun dato ufficiale per i turni elettorali del 19 e 26 aprile scorsi che hanno coinvolto alcuni Stati del nord est, nord ovest e del meridione orientale del Paese. Le percentuali nazionali non sono mai state elevate per l’oggettiva difficoltà logistica di talune zone che comunque, per obbligo costituzionale, vedono la macchina amministrativa portare le urne pure in luoghi impervi dell’estesissimo territorio. Il decennio segnato dal successo di Modi alla guida del gruppo nazionalista Bharatiya Janata Party ha registrato nel 2014 una partecipazione del 61% degli iscritti ai seggi (31% il risultato del Bjp, 18,5% per la coalizione del National Congress), seguita da un incremento al 67% nel quinquennio seguente (37% al Bjp, 19,50% al NC). Attuali calcoli non ufficiali stimano una flessione, nonostante il roboante lancio di se stesso nella veste di padre della patria fatta dal presidente che cerca il terzo mandato. Modi lo conseguirà per la pochezza degli avversari, per il contributo offerto da nazioni popolatissime e fedelissime al suo programma, come l’Uttar Pradesh che andrà alle urne il 20 maggio. Ma più sull’onda delle spaccature etnico-confessionali che si richiamano al Bharat, la nazione degli hindu, che ai proclami lanciati ai primordi incentrati sul cambiamento, l’anticorruzione, lo sviluppo dei cosiddetti “giorni buoni” d’una nuova India. Indubbiamente la nazione si trasforma comunque molto in funzione ipernazionalista, un mai debellato virus che contagia varie aree del mondo, e spinge al conflitto più che al confronto e alla collaborazione. Alcuni osservatori sostengono che proprio l’esasperazione del culto del leader diffonda un desiderio di estraneità di taluni strati dell’elettorato che esprimono il dissenso con l’astensione. 

 

L’impossibilità di cambiare, di affidarsi a componenti politiche capaci d’incarnare bisogni prima ancora che desideri, allontana giovani e meno giovani dalle urne. Fra i bisogni si collocano necessità primarie soggettive quali un lavoro adeguatamente retribuito, e collettive come strutture ospedaliere, drammaticamente carenti nei mesi bui della pandemia da Covid 19, istituti scolastici attrezzati mancanti in diverse aree, vie di comunicazione degne d’un colosso economico globale. Contraddizioni presenti anche in Paesi occidentali dai contorni socio-demografici meno problematici, eppure l’India che vuole trainare l’Oriente al pari e più della Cina dovrebbe aver posto le basi per alcune soluzioni. Non pare questo l’intento governativo, volto a scavare fossati ancora più profondi fra gli strati negletti della popolazione, fossati che aggiungono alle vetuste caste, le emarginazioni etnico-religiose. Pezzi forti dei due mandati finora assolti da Modi sono stati aziende e templi. La produzione tecnologica e non solo alberga in talune zone (prevalentemente il nord est e attorno alle metropoli di Mumbai e Chennai), i capitali esteri continuano ad affluire, anche grazie agli inesistenti controlli statali sulla sicurezza sul lavoro e l’inquinamento. Inoltre recenti accordi sono stati firmati con alcuni Paesi europei fuori dall’Unione, Svizzera, Norvegia, Islanda potranno esportare merci evitando le barriere tariffarie che proteggono le aziende indiane. Il patto prevede una via privilegiata anche per quest’ultime libere di lanciare prodotti in Occidente senza pagare dazi. Quello mercantile è l’unico terreno sul quale l’acceso nazionalismo scivola via senza contrapposizioni e intoppi. A ben guardare è solo uno stratagemma per aggirare regole. E’ il liberalismo sfrenato che rende le collettività disuguali, in nazioni che pregando nei templi o nelle cattedrali si somigliano. 

martedì 23 aprile 2024

Modi, sogni di grandezza nella discordia

 


In India i richiedenti asilo e i rifugiati islamici provenienti da Bangladesh e Myanmar, quelli giunti prima dell’applicazione del Citizenship Amendament Act datato 2019 ed entrato in vigore di recente, sono bollati con l’epiteto di "infiltrati". Per la campagna elettorale che prosegue - visto che i turni ai seggi iniziati in alcuni distretti meridionali il 19 aprile si succederanno fino al 1° giugno in tutti i ventotto Stati e sette Territori dell’Unione - il presidente Modi sceglie di colpire indirettamente i presunti “infiltrati”. Durante un comizio nel Rajastan ha sparso benzina sul già rovente clima elettorale. Ha accusato il comunque malandato Partito del Congresso, maggiore antagonista del Bharatiya Janata Party, e prospettato un panorama nazionale apocalittico se lui dovesse perdere le elezioni, perché gli infiltrati musulmani potrebbero ricevere aiuti da un governo diverso dal suo. “Sarebbero favoriti quelli che hanno più figli” - ha tuonato - puntando sul nervo scoperto della maggioranza hindu che lo segue a occhi chiusi nella politica di modificare gli orientamenti del Paese a favore di un’unica etnìa: la propria. E’ un’insinuazione legata alla teoria del complotto definito ‘Love jihad’, il presunto furto delle ragazze hindu da parte di giovani musulmani che le corteggerebbero con lo scopo di far loro cambiare confessione. Se non fosse una calunnia lanciata come una clava sul dibattito politico potrebbe essere vissuta come una boutade, per quanto dati statistici dell’ultimo decennio mostrano un’inversione di tendenza nella natalità proprio nelle coppie islamiche che stanno facendo meno figli. Eppure anche un’elezione data dagli analisti per scontata con la vittoria certa del partito di maggioranza (accreditato dai sondaggi di un vantaggio di almeno 10 punti percentuali) e un terzo mandato per il presidente, vede quest’ultimo inseguire con accanimento la propaganda razzista dell’hindutva che ne ha forgiato la militanza giovanile. 

 

Modi mira a raggiungere nella Camera bassa (Lok Sabha) il numero di 370 deputati che gli consentirebbe una modifica costituzionale da indirizzare in senso etnico-confessionale tutta a favore della nazione hindu. Il quinquennio trascorso suffraga la tendenza. Il suo successo nel 2019 lo portava a sostenere di voler difendere l’intera popolazione, promesse mai mantenute sia sul versante della sicurezza sia su quello economico. La prima ha visto il crescendo della persecuzione religiosa soprattutto di islamici e cattolici. Sul versante sociale le maggiori lacerazioni hanno coinvolto gli strati più deboli (i dalit) e gli stessi contadini, mobilitatisi contro normative che favorivano le multinazionali dell’agricoltura. La durissima protesta del biennio 2021-22, con scontri di strada e centinaia di morti, portò al ritiro della legge. Altre categorie di lavoratori poveri, falcidiati anche dalle misure prese nel primo anno della pandemia di Covid 19, non hanno raggiunto risultati simili. Il tema dei bassi salari resta tuttora una piaga purulenta. E’ uno dei capi d’accusa dell’opposizione riunita nella coalizione con l’acronimo India (Indian national development inclusive alliance) formata appunto dal Partito del Congresso e da gruppi minori. Una delle formazioni presenti su tutto il territorio nazionale, l’Aam Adni Party, proprio alla vigilia delle elezioni ha denuciato come persecutorio l’arresto del leader Arvind Kejriwal, primo ministro dello Stato di Delhi. L’accusa nei suoi confronti è riciclaggio. L’Alta Corte della capitale ha respinto l’ipotesi di pagamento di una cauzione per la sua liberazione e il politico resta tuttora detenuto. L’Aap sostiene che infastidisce la loro posizione sul decentramento amministrativo e la campagna contro le multinazionali straniere cui l’attuale maggioranza consente ogni genere di affari. Del resto uno dei cavalli di battaglia di Modi è l’economia interna che corre, crescendo negli ultimi mesi oltre l’8%. Accanto al sorpasso demografico sulla Cina c’è la rincorsa alla forza economica. Alcune agenzie pronosticano l’ascesa indiana al terzo posto mondiale nel prossimo triennio. Modi vuol presiedere questo stato di grazia.  

mercoledì 17 aprile 2024

India elettorale, la carica del miliardo di elettori

E’ nell’India che resta quasi immune alla spinta confessionale hindu pur essendo induista, che non crede nel premier guru, che consolida gli ottant’anni d’indipendenza senza rifugiarsi nel Bharat, è lì che Modi vuole insinuare il proprio peso per stravincere. Perché secondo i pronostici la vittoria dovrebbe avercela in tasca, ma il sassolino nella scarpa duole al sud. Negli Stati federati del Tamil Nadu, Karnataka, Andhra Pradesh, Kerala, Telangana, più i territori dell'unione di Puducherry e Lakshadweep, questi sono i luoghi per lui poco amichevoli. E’ quel meridione terra felice, con un terzo del Pil nazionale e un quinto della popolazione del Paese-continente, a restargli ancora estraneo. Per questo le recenti cronache hanno registrato ben sei-sette viaggi del premier solo nel Tamil Nadu. Lì ha incontrato persone e presenziato a spettacoli di strada. Ha parlato con la gente, ha stretto mani e corpi, s’è fatto vedere nei luoghi dove il Bharatiya Janata Party ha raggranellato solo 30 dei 131 seggi disponibili nelle ultime elezioni. E l’ha fatto grazie ad alleanze con minute formazioni locali, risalendo la china davanti alle difficoltà che aveva registrato prima della conquista del potere nazionale. Gli arancioni che spopolano in diversi Stati, specie del nord, nelle aree meridionali non trovano gran seguito. A detta di vari politologi in quei territori il voto delle prossime settimane (le consultazioni partono il 19 aprile per concludersi il 1° giugno e coinvolgono quasi un miliardo di persone) potrebbe confermare la fidelizzazione degli elettori ai governatori in carica che formano un mondo a parte rispetto all’orientamento di maggioranza del Lok Sabha. Sono situazioni diverse fra loro che non hanno peso nel Parlamento di Delhi, nel quale il premier uscente spera di raggiungere quel consenso che fu soltanto del Partito del Congresso dopo l’attentato fallito a Indira Gandhi: 400 seggi sui 543 a disposizione. 

 

Certo, l’ex giornalista Ravindra Ravi, che dal settembre 2021 guida il mediamente popoloso Tamil Nadu (70 milioni di abitanti), appare come un leader legato alla tradizione, ben diverso dal collega Vijay Prashad, governatore del Kerala dove, sempre nel voto di tre anni fa, il Fronte Democratico di Sinistra ha ripreso ad amministrare il territorio in virtù dell’attenzione rivolta a varie emergenze, dalla pandemia da Covid alle inondazioni e ha stabilito un buon rapporto con la popolazione. Le statistiche dicono che in Kerala la mortalità infantile, tuttora una piaga in tanti Stati federati, ha una condizione simile alle migliori nazioni europee. Modi ha il pensiero fisso sul Tamil Nadu. Si racconta che durante le celebrazioni dello scorso gennaio in una zona di Chennai, che ne è la capitale, e dove il Bjp locale ha stabilito il proprio quartier generale si potevano intravedere un’effige in grandezza naturale della divinità  Ram e quella della divinità laica, Vladimir Ilic Ulianov, il bolscevico Lenin che compariva davanti alla sede del Partito Comunista dell’India. Mondi e ideologie ben diverse presenti in questa parte della nazione-continente. Dove l’immancabile teoria dell’hindutva, tuttora presente, provava a creare un proprio retroterra indottrinando i fedeli hindu e scagliandoli contro le minoranze religiose. Più di quarant’anni fa alcuni scontri conclusi con morti e feriti vennero innescati dalla diceria che giovani cristiani stavano molestando donne hindu, un malcostume che prescinde razze e fedi. Bisognava capire se l’accusa rispondesse al vero, ma i seguaci dell’hindutva non lo verificarono, picchiarono e accoltellarono. Comunque quelli che son rimasti negli annali della nera come “gli scontri di Mandaikadu” non hanno avuto il seguito riscontrato in altri luoghi del Paese in tempi lontani e recenti. E se la tendenza all’abuso della religione volto a una capitalizzazione politica del voto, soprattutto a vantaggio del partito di maggioranza, nel Tamil e negli Stati del sud c’è la tendenza a separare la scelta politica dalle credenze religiose. Questa è una spina nel fianco di Modi, che non a caso col suo governo diminuisce i seggi a disposizione di questi Stati a vantaggio di altri. Così il Tamil Nadu scende da 39 a 30 seggi parlamentari mentre l’Uttar Pradesh passa da 80 a 90.    


venerdì 12 aprile 2024

Isis Khorasan, la nuova centrale del terrore

 

L’inquietante e sanguinaria operatività dell’Isis Khorasan passibile, come tutte le organizzazioni para clandestine, d’infiltrazioni e strumentalizzazioni ha conosciuto due momenti: la fase precedente alla pandemia da Covid 19 e quella successiva. Non che i miliziani e i nuovi adepti si siano concentrati sulla prevenzione dai contagi, certo è che fra il 2020 e il 2021 la movimentazione di persone attraverso i confini nazionali, almeno quella costretta a transitare per porti e aeroporti, risultava bloccata o sensibilmente ridotta e questo ha prodotto un limite a una certa tipologia di attacchi. E’ vero che molte località dove operano i jihadisti sono aree orientali disastrate politicamente e spesso anche militarmente che non si sono interessate granché alla limitazione degli spostamenti e hanno potuto registrare ogni sorta di scorreria. Ma è nel 2022 che l’attenzione delle maggiori agenzie d’Intelligence riscontra una rilanciata operatività, sino ai sensazionali attacchi di cui si sono occupati i media mondiali come per il Crocus City Hall di Krasnogorsk alle porte di Mosca. Deflagrante, non solo per l’esplosivo usato, era stata anche la strage di Kerman a inizio anno, eppure l’informazione mainstream non andava al di là della cronaca, e alla propagandistica di certo Occidente che considerava quel grosso attentato un “regolamento di conti fra terrorismi”,  rilanciando l’equivalenza fra jihadismo e Stato iraniano. Come si sa quest’ultimo - e come la Russia, recente obiettivo del Daesh del Khorasan - hanno combattuto l’organizzazione fondamentalista islamica sul territorio siriano, certo secondo proprie logiche geopolitiche volte ad assecondare il regime di Asad, un’entità statale legittimata col terrore. Però quello è lo scacchiere in cui, dal 2014 al 2019, si sono mossi regimi e satrapi, imperialismi, coalizioni, eserciti nazionali e mercenari di varie sponde, dopo la grande depressione creata in tutto il Medio Oriente da vari interventi stranieri. L’operazione Enduring Freedom (2001) voluta dal presidente statunitense George W. Bush, la seconda guerra del Golfo (2003) sponsorizzata dal premier britannico Tony Blair, passando per l’intervento internazionale in Libia (2011) agognato dal presidente francese Nicolas Sarkozy. Insensate sciagure geopolitiche, oltre che inutili bagni di sangue specie di civili: oltre mezzo milione di morti nelle tre tappe. 

 

Se si elucubra su chi organizza l’odierno terrorismo globale, spesso si dimentica l’effetto rimbalzo a talune cause d’impronta bellica, economico-finanziaria e di supremazia geopolitica tuttora imposte dalle democrazie occidentali. L’imperialismo è vivo e vegeto, con lui il colonialismo di ritorno e nella partita mondiale i protagonisti sono aumentati rispetto al sistema imposto un secolo fa dall‘Accordo Sykes-Picot. Tutto ciò che era stato digerito e dimenticato fra le due Guerre Mondiali e la successiva Guerra Fredda è riapparso alle soglie del nuovo millennio anche a seguìto delle scelte vecchie e nuove. Discorrere del Khorasan, che i nutrizionisti riferiscono al grano turanicum, ricco di fibre, significa culturalmente richiamare l’antica regione persiana “dove origina il sole”. E se nell’attuale Iran una provincia ha mantenuto fino a vent’anni addietro questo nome (ora è nota come Razavi Khorasan) specchiandosi nella città santa di Mashhad, era indicata come Grande Khorasan un’enorme area geografica che comprendeva quasi tutto l’odierno Afghanistan, parte degli attuali Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan, tacciati nel Novecento come Repubbliche sovietiche ma in altre epoche territori appartenuti a greci, arabi, selgiuchidi, safavidi. Insomma nel Khorasan c’è passato un pezzo della Storia mediorientale e gli attuali miliziani che lo richiamano come denominazione d’un ipotetico califfato cercano di rievocare storicamente quanto di antistorico c’è nel loro programma. Quel che ha mostrato lo Stato Islamico nella prima fase della sua comparsa sul territorio siro-iracheno - per un buon periodo ampio più di 90.000 kmq - è stata propaganda sanguinaria, condita da un competente utilizzo della tecnologia e della tecnica di divulgazione, addirittura definita da taluni politologi “orwelliana”. Esperti di cinematografia notavano una meticolosa padronanza nel confezionare vere pellicole hollywoodiane con grafica, ritmo, alternanza di scenografie aggressive e discorsive per lanciare il proprio messaggio bellicistico, atto a diffondere paura e terrore. Gli scivolava accanto, sempre tramite filmati propagandistici, la visione utopica del proprio governo nel Califfato con cittadini sereni in mercati ricolmi di cibo e di una vita tranquilla sicuramente mai conosciuta, perché fra Raqqa e Mosul l’ampia coalizione anti Isis già nel 2015 lanciava attacchi di terra e bombardamenti dal cielo.

 

Eppure ben prima della disfatta e della ritirata da diverse zone di quel territorio, l’Isis marchiato Khorasan pensava a trovare spazi proprio in Afghanistan dove la guerriglia talebana metteva da anni alle strette le truppe Nato della Missione Isaf e l’esercito locale organizzato e addestrato dagli Stati Uniti. L’Isis-K (o Iskp) si faceva forte del reclutamento del Movimento Islamico dell’Uzbekistan, fondato nel 1991 dall’uzbeko Tahir Yuldashev e vicino ai talebani fino alla morte del mullah Omar, ma poi entrato in contrasto con loro giudicati “nazionalisti deviati”. Taliban e Isis-K ingaggiarono fra il 2016 e il 2018 un confronto a distanza a suon di auto e camion-bomba, colpendo obiettivi governativi, caserme, ambasciate, hotel, aeroporti, università, moschee (esclusivamente sciite), piazze e mercati dove poveri civili finivano straziati. Lo facevano per attribuirsi il primato dell’agguato più cruento, del colpo più audace, del controllo più stretto di un territorio che l’ufficialità del presidente Ghani non riusciva a gestire. Fu un periodo di cieca violenza diffusa in diverse città che riportava alla mente l’insicurezza esistenziale seconda solo alla guerra civile dei primi anni Novanta, peraltro concentrata nella capitale, il cui controllo costituiva il fine primario di ogni Signore della Guerra impegnato sul campo. Ingrossavano le fila del gruppo jihadista che si firmava Khorasan diversi talebani in dissidio con la Shura di Quetta, rimasta fedele ai princìpi del fondatore mullah Omar. Mentre i dissapori, e non solo per la sua successione, erano in atto anche prima della sua definitiva dipartita, avvenuta nel 2013 (era da tempo affetto da tubercolosi) e ufficializzata solo due anni dopo. C’erano alcuni turbanti che guardavano più alla visione transnazionale di Qaeda, cui s’ispira l’Isis, che allo statalismo dei talebani afghani. In aggiunta clan doppiogiochisti particolarmente potenti e agguerriti, come quello Haqqani, brigavano per ostacolare le nuove leadership talebane - Mansour, Baradar, Akhundzada - e in queste crepe reclutavano nuovi adepti. Fra cui ex Tehreek-i Taliban pakistani guidati dal gruppo tribale Orakzai che sconfinando si collocarono nelle province di Nangarhar, Kunar, Kunduz, Kabul. Di fatto l’Isis-K e i taliban afghani se non possono considerarsi fratelli sono parenti, formatisi nelle stesse strutture, ma dal 2014 i primi sono fuoriusciti dai ranghi dando vita alla nuova aggregazione. Fra l’altro le etnìe tajika e uzbeka, considerate di origine turca e minoritarie rispetto a quella pashtun incardinata fra la base logistica di Kandahar e quella ideologico-religiosa di Quetta,  costituiscono stirpi che rivendicano propri spazi di fronte al rigido centralismo del gruppo sunnita hanafita.  

 

Dopo la riconquista del potere da parte talebana (agosto 2021) e l’annuncio dell’Emirato afghano, gli Haqqani si sono ben accasati spartendo col Gotha ortodosso alcuni dicasteri: Sirajuddin quello dell’Interno, lo zio Khalil il ministero dei rifugiati. I due fratelli di Sirajuddin: Aziz, formatosi nella madrasa pakistana Darul Uloom Haqqania considerata l’università del fondamentalismo deobandi, è rimasto un leader militare; mentre l’attuale trentenne Anas si è fatto le ossa nella delegazione che negoziava a Doha il ritiro statunitense e mira a funzioni diplomatiche. La loro scelta li ha definitivamente allontanati dal gruppo del Khorasan che lo scorso anno ha intrapreso azioni mirate contro esponenti talebani o governatori. E’ accaduto a Mohammad Dawood Muzammil, ucciso nel proprio ufficio di Mazar-e Sharif. S’è detto che si trattava di una vendetta seguita all’eliminazione del capo dell’Intelligence dell’Isis-K, tal Qari Fateh. Sta di fatto che dopo la conquista di Kabul i taliban afghani hanno incarcerato alcune centinaia di miliziani del Khorasan e smantellato diverse loro cellule. Così l’Iskp ha ripreso a colpire all’estero puntando l’obiettivo su russi e cinesi. In precedenza (settembre 2022) c’era stato l’assalto suicida all’ambasciata russa di Kabul che uccise due dipendenti. La Russia costituiva un nemico antico contro il quale rinnovare offensive. Aveva già conosciuto macabri massacri d’impronta jihadista nella fattispecie dei separatisti ceceni: il teatro Dobrovska di Mosca (2002), la scuola di Beslan (2004), nell’Ossezia del Nord. Seguiti dagli attentati alle linee metropolitane di Mosca (2010) e San Pietroburgo (2017) e quest’ultima carneficina, che uccideva tredici cittadini in viaggio sui mezzi di trasporto pubblici, condusse all’identificazione come attentatore d’un giovane russo nato nel Kirghizistan, radicalizzato per frequentazioni con combattenti islamisti siriani. Proprio questi agguati all’apparenza condotti singolarmente o da nuclei minuscoli ma egualmente capaci d’infilarsi nelle maglie per nulla selettive e protettive di cittadini e territorio, mostravano organismi più agguerriti di semplici lupi solitari. La Russia così militarizzata, impegnata sugli scenari siriano e libico per tacere d’altro, si ritrova particolarmente vulnerabile in casa.  Con 007 interni e agenti del Fsb (Servizio di Sicurezza Federale) magari capaci dei più misteriosi intrighi al servizio della politica del Cremlino, ma non di un eccellente filtro contro il terrorismo. I successi del suo operato sono ormai datati al 2015 quando venne eliminato Aliaskhab Kebekov, successore di Umarov nel cosiddetto ‘Emirato del Caucaso’. Ma di leader tajiki e uzbeki nulla, solo pedine esecutive. 

 

La realtà è che lo jihadismo combattente ha orientato ancor più a Oriente il fulcro del suo reclutamento, i miliziani del Khorasan hanno una matrice diversa dai caucasici della lotta cecena. Quest’ultimi sono stati limitati e, almeno per ora, sconfitti, mentre nel cuore asiatico c’è un potenziale serbatoio copioso. Lo dimostrano i nuclei di tajiki attentatori reali e potenziali, come qualche sospettato fermato in via preventiva (uno anche in Italia). I dati provenienti da quel Paese, che ha più del 10% della sua popolazione emigrata, per la maggior parte proprio in Russia ma pure in nord Europa, vedono giovani alla ricerca di denaro con lavori d’ogni sorta. Quello del killer prezzolato è decisamente estremo, eppure alcuni dei fermati per l’ultimo attentato di Mosca sostenevano d’aver ucciso per soldi, neppure tanti: cinquemila euro. Elemento non nuovo. I talebani ingaggiavano miliziani fra le truppe afghane, pagandoli il doppio della tariffa prevista dai governi Karzai e Ghani. E lo stesso Khorasan ha strappato combattenti ai taliban non sempre per furore fondamentalista. Il dio denaro è un motore che travalica leggi religiose. Poi prevalgono anche orientamenti politici più o meno in voga. L’Uzbekistan che nell’ultimo decennio ha vissuto un’accelerazione economica e ha aperto canali turistici con l’Occidente, anche grazie alla straordinaria bellezza artistica di alcuni suoi luoghi di culto (le moschee di Samarcanda, Buchara e Khiva), ha conosciuto un ritorno del jadidismo, accanto al jihadismo. Il jadidismo aveva rappresentato una sorta di modernismo islamico di lingua turca quando la Russia aveva ancora lo zar. Sotto l’attuale presidenza Mirziyoyev, il governo di Tashkent idealizza questo pensiero, cercando con l’identità culturale di sottrarre vocazioni alla lotta armata. Ma non c’è da sottovalutare l’impatto informativo che l’Isis-K s’è dato tramite l’Al Azaim Media Fondation. Come e più del Daesh di Al Baghdadi, questa struttura utilizza piattaforme social (Facebook, Telegram, Tik Tok) per attività di propaganda, reclutamento, finanziamento, divulgando in una decina di lingue oltre all’inglese e coprendo un ampio territorio dell’Asia centrale. Fra gli obiettivi esposti, e per ora solo minacciati, anche una sorta di logoramento e sabotaggio delle infrastrutture energetiche (oleodotti e metanodotti) verso l’Asia e verso l’Europa. Qualche analista sostiene che per il futuro le prospettive appaiono nere più della loro bandiera, c’è quasi da rimpiangere Al Qaeda. 

 

(di prossima pubblicazione sul numero di giugno del periodico "Confronti")