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lunedì 30 aprile 2018

Kabul, l’esasperazione della morte


Trappola mortale stamane nella Kabul diventata obiettivo dell’Isis afghano. Un kamikaze s’è fatto esplodere presso l’edificio che ospita la locale Intelligence (Nds) posto nell’area attigua a Shah Rarak Road, una via parallela dell’enorme stradone che conduce all’aeroporto cittadino, peraltro controllatissimi. Si trattava di un’esca. Sul luogo dell’attentato accorrevano, come di consueto, autombulanze e personale sanitario più un manipolo di giornalisti. E naturalmente le forze dell’ordine. Dopo una ventina di minuti nello stesso luogo un secondo kamikaze, mescolato fra le presenze che s’aggiravano fra i rottami, azionava il detonatore della cintura esplosiva nascosta sotto gli abiti provocando una strage peggiore. Fra le vittime, assieme ai passanti colpiti nella prima deflagrazione, si contano soccorritori e nove giornalisti. Un comunicato del ministero della Salute parla di venticinque cadaveri e una cinquantina di feriti, alcuni dei quali in condizioni disperate. I nostri contatti in città riferiscono una situazione scioccante, perché oltre a seminare sangue e lutti, infonde un livello d’insicurezza assoluto, che indurrebbe a restare rinchiusi in casa in una situazione in cui muoversi è indispensabile per la stessa sopravvivenza ordinaria.
L’esasperazione della morte, indirizzata solo parzialmente alla cieca, quando colpisce gli sciagurati che si trovano a transitare nel luogo e nel momento dell’attentato, segue invece un piano che ha una strategia ben congegnata. Seppure le regìe possono essere varie. La prima è attribuibile ai gruppi talebani dissidenti che usano il marchio dello Stato Islamico del Khorasan, che hanno rivendicato la strage. Costoro si rivolgono principalmente contro il governo Ghani e i suoi apparati della sicurezza, e indirettamente contro i talib della Shura di Quetta, e i suoi momentanei alleati del network di Haqqani, sempre passibili quest’ultimi di trasformismi itineranti. I motivi sono: la supremazia sul territorio, con tutti gli interessi economici di contorno, e la palma della resistenza antioccidentale. Nella strategia stragista incidono pure le aperture fra governo afghano, Cia e i talebani disponibili a trattative per entrare nel governo. Un quadro, in ogni caso, instabile e cangiante da mese a mese. Sempre attiva l’altra regìa, attuata da Servizi pakistani, che usano la destabilizzazione afghana, sotto ogni forma, provocata oggi dalla corsa agli attentati, in altre fasi dalla guerra civile, per ottenere una frammentazione del territorio in zone controllate da soggetti diversi (come di fatto sta accadendo negli ultimi anni) per poterne trarre vantaggi geopolitici nel confronto-scontro su quel tratto di Medioriente con Iran e Arabia Saudita.
Non potendo essere costantemente in quei luoghi, come altri colleghi ci serviamo del lavoro coraggiosissimo di corrispondenti locali, raccolti in una rete di collaborazione con testate internazionali come Reuters e Afp. Oggi piangiamo questi cronisti dal fronte, si chiamavano Ghazi Rasooli, Ali Rajabi oppure Shah Marai. Come dicevamo accorsi sul luogo dell’attentato ed esplosi con la seconda bomba. A differenza di sfortunati passanti, loro non erano lì per caso, si trovavano nel luogo dove il reporter va per raccontare eventi spesso tragici dalle logiche perverse. Come perversa sa essere tanta geopolitica. Questi giornalisti non erano propagandisti, raccontavano ciò che vedevano, in molti casi lo facevano da free lance, perché anche grandi agenzie d’informazione come quelle citate, non danno garanzie (non tanto d’una sicurezza fisica che in quelle situazioni non può esistere) ma sulla stessa retribuzione del prodotto di tanto lavoro e rischio, in un mestiere che più gli editori che la tecnologia hanno deregolarizzato. Grazie al certosino impegno di questi reporter il mondo che impazza attorno a progetti di morte viene narrato, filmato, fissato in istantanee. A rischio della vita. A questi comunicatori la terra è lieve già quando ne divulgano i fatti, poiché se le parole e le immagini possono essere pietre, quelle dell’informazione libera da imposizioni editoriali e di regime hanno la speciale virtù dell’impegno finalizzato a una causa. 

martedì 24 aprile 2018

Stragi afghane, i timori sulla via della seta


Le elezioni politiche afghane previste per il prossimo 20 ottobre, contro cui si scaglia la nuova ondata di terrore del Daesh asiatico, hanno in quest’ultimo un acerrimo nemico, ma anche altri osservatori. Innanzitutto i taliban che su tale terreno non sembrano impegnati ad assediare il presidente Ghani. Perché con lui hanno aperta una schizofrenica e defatigante altalena di trattative cui seguono periodicamente anche azioni armate, rivolte prevalentemente su obiettivi militari e simbolicamente politici. Certo, talvolta ci scappano tante vittime civili, ma ovviamente non è questo che preoccupa i talib. Costoro nei mesi scorsi, e probabilmente continueranno, hanno ingaggiato con lo Stato Islamico del Khorasan (una delle sigle sotto cui i miliziani dissidenti si sono riuniti) un confronto all’ultimo morto per vari motivi. Primo: controllare un numero crescente di province e con esse le popolazioni che le abitano. Secondo: dimostrare la propria efficienza militare, che però non risulta così forte da assumere il controllo dell’intero Paese come nel 1996. Terzo: non perdere la supremazia nel ruolo di resistenza primaria all’occupazione occidentale e ai suoi governi fantoccio. Però gli stessi turbanti ortodossi manifestano due tendenze verso la nazione che più d’ogni altro li foraggia, il Pakistan, e verso certi suoi settori, l’Inter-Services Intelligence.
I talib afghani hanno buoni rapporti col governo di Islamabad, quelli d’origine pakistana li hanno pessimi sino a giungere allo scontro aperto con gli apparati della repressione, soprattutto l’esercito. Vari governi, dai tempi del generale islamista Zia Ul-Haq, passando per Masharraf e Sharif, utilizzano gli “studenti coranici” in armi come forza eversiva per la propria penetrazione in Afghanistan all’interno di un mai celato disegno egemonico nella regione. Ma il caos afghano, incentivato nell’ultimo anno da altri eventi mediorientali come l’evaporazione del progetto del Califfato sui territori iracheno e siriano, aumenta l’attenzione sull’insicurezza di quel Paese per altri soggetti impegnati in loco. Si tratta delle aziende interessate al sottosuolo, il terzo polo d’attrazione del Paese dell’Hindu Kush dopo basi militari e business dell’oppio. La Metallurgical Corporation of China è un gigante che nel 2008 ha ricevuto dal governo Karzai l’esclusiva per ricerche e sfruttamento minerario, iniziando da quelle di rame di Mes Ainak, a 40 km sud-est da Kabul. Inutile dire che la contropartita di tre miliardi di dollari non è andata, né andrà, a beneficio della popolazione. Dal 2013, quando la prospettiva del ritiro di gran parte delle truppe statunitensi è diventata una realtà, la Cina ha iniziato a interessarsi della questione sicurezza.
Le imprese non amano il caos politico, tantomeno quello militare, e le turbolenze nello scenario afghano pongono problemi agli affari cinesi. Quello metallurgico è solo uno dei facenti capo al ciclopico progetto del ‘One road one belt’ che segue percorsi d’ogni genere. Coinvolto in una sua provincia dall’estremismo dell’etnìa uigura, il governo di Pechino vede nella pratica terrorista legata a questioni etniche e/o religiose un tema da affrontare ovunque i suoi interessi sono presenti. Con l’insediamento dell’amministrazione Ghani ha partecipato al quadrangolare col governo locale più Stati Uniti e Pakistan che dal 2014 apre tavoli di trattative coi taliban. Come dicevamo, in certe fasi questi tavoli si chiudono, ma il pragmatismo cinese non si perde d’animo e quando i turbanti hanno deciso di parlare solo con le armi a Kabul, la diplomazia li ha condotti a Ürümqi, nel focoso Xinjihang degli uiguri, continuando dialoghi che il network islamista accetta perché la Cina finora non schiera truppe fuori di casa. In realtà qualche manipolo di ‘consiglieri’ militari è giunto anche in terra afghana, ma si tratta di scambi di facciata all’interno della citata collaborazione quadrilaterale. Pechino tiene a non sporcarsi le mani di sangue, sa che ciò implicherebbe gravi problemi, visti le tristi esperienze russa e americana, però la questione della sicurezza dei luoghi resta una contraddizione con cui fare i conti.
Il fatto che finora i cinesi non abbiano mai parteggiato per nessuna etnìa, religione o fazione li pone all’occhio talebano come un interlocutore; l’equilibrio mostrato da Pechino segue il principio di evitare sia manipolazioni sia un dominio politico su Kabul. Certo il rischio che la situazione interna si opacizzi su un caos di tipo siriano, con un frazionamento del territorio in aree controllate da differenti entità  rappresenta di per sé un grosso problema per chi deve far viaggiare materiale, fossero pure minerali. Alcuni analisti sostengono che nella sua praticità la Cina può essere disposta a subentrare nella strategia degli aiuti internazionali a fondo perduto finora sostenuta da americani e Unione Europea, sebbene con una diminuzione d’investimenti. Oppure può puntare su un attore locale forte ma instabile e imprevedibile come il Pakistan. Il progetto ‘One road one belt’ che mira ad aprire passaggi e frontiere ha nelle strettoie di certa geopolitica se non un nemico, un ostacolo non da poco. Far convivere i rapporti con potenze regionali pesantemente interessate agli sviluppi degli orientamenti afghani, quali il Pakistan e l’Iran, è degno del miglior equilibrismo diplomatico. Le linee della ‘non interferenza’ e della ‘vicinanza costruttiva’ potrebbbero incepparsi davanti all’imprevedibilità di progetti esclusivamente distruttivi come quelli bellici e dell’ideologismo armato. Quanto l’economia cinese sia disposta a far pagare alla sua geopolitica è da verificare. Quello che da decenni stanno pagando gli afghani come vite umane, sfruttamento, povertà, azzeramento dei diritti, è sotto gli occhi del mondo.  

domenica 22 aprile 2018

Afghanistan, ordinaria morte esplosiva


Le urla strazianti dei familiari delle ultime 48 vittime della comunità hazara di Kabul si levano davanti a un centro elettorale sito in un edificio adibito a scuola di Dasht-e Barchi, area occidentale della capitale. E’ una zona già squarciata da bombe e dolore, davanti alla moschea nel mese di febbraio erano stati allineati ventisei cadaveri. Oggi, in una domenica di sole, i marciapiedi prospicenti l’ufficio, dove ci si registrava per le elezioni programmate in autunno, sono nuovamente un lago di sangue. Le immagini diffuse dal luogo dell’attentato mostrano fototessere e scarpe, forse gli unici segni con cui risalire all’identità di alcune vittime dilaniate dall’esplosione provocata da un kamikaze. E’ lo Stato Islamico, come in altre recenti occasioni a rivendicare l’agguato, lanciato innanzitutto contro i kabulioti, per intimorirli, piegarli, prostrarli. Lanciato contro l’etnìa hazara di fede sciita, dunque secondo i dettami del fanatismo wahhabita di cui si nutre il Daesh, nel piccolo come grande Medio Oriente, contro infedeli da sterminare. Un attacco che diffondendo morte e paura si scaglia anche sull’amministrazione Ghani, che cerca legittimazione e conferma dalle urne, mentre appare incapace di governare alcunché.

I talebani reclamano l’estraneità da questa strage, per quanto nei mesi scorsi si sono impegnati in un confronto ravvicinato e criminale coi rivali del Khorasan e aggregati, destinato a seminare lutti fra i civili. E per allargare la cifra altri sei morti si registrano in un agguato fotocopia avvenuto nella provincia settentrionale di Baghlan, sempre davanti a un centro elettorale. Sebbene per questo strazio non sia tuttora giunta rivendicazione. Non è il primo attacco rivolto ai luoghi dove i cittadini sono invitati a recarsi per la registrazione elettorale, che si tiene con ampio anticipo per poter verificare l’adesione degli afghani alla scadenza. Ovviamente chi, come i fondamentalisti dissidenti convogliati sotto la sigla dell’Isis, cerca di opporsi alla scadenza prosegue nella diffusione di terrore e caos. Anche diversi poliziotti sono stati uccisi o feriti in agguati rivolti a questo genere di uffici tramite azioni rivendicate in questi casi da talebani. La diversità dell’approccio, egualmente violento, fra le due fazioni riguarda gli obiettivi da colpire: nelle ultime settimane i talib sembrano puntare esclusivamente agli uomini in divisa. La Commissione elettorale indipendente sostiene che il corpo elettorale s’aggira sui 15 milioni di aventi diritto al voto. Agli islamisti di strada, che boicottano col sangue la scadenza, s’affiancano gli islamisti di governo che pensano di utilizzarla per i propri affari, come accade dal 2001 col benestare dell’occupazione occidentale. 

sabato 21 aprile 2018

Iran, proteste sparse


Non si sa se diverranno una ripetizione anche più estesa e violenta delle proteste scoppiate a fine 2017, comunque gruppi di iraniani sono tornati in strada, stavolta prevalentemente nelle aree di confine con l’Azerbaijan, più i soliti nuclei studenteschi attivi nell’università di Teheran. Hanno sfilato in maniera creativa a piedi, su moto e automobili, hanno urlato e inveito. Hanno appiccato incendi, hanno subìto la repressione dei reparti antisommossa che hanno anche sparato. In due giorni si sono registrati ventidue morti (l’afferma Al Jazeera, mentre i media iraniani tacciono) e oltre cinquecento arresti. Roba non da poco. Ali Khamenei, intervenendo davanti a gruppi di fedelissimi, ha nuovamente accusato nazioni straniere e nemiche intente a organizzare sommosse per attaccare non solo il legittimo governo, ma la sicurezza della nazione e della stessa popolazione. Eppure una fetta, neanche esigua, di popolazione sfugge alle indicazioni della Guida Suprema, come il movimento delle donne che da mesi contesta l’obbligatorietà del velo. Costoro, in maniera organizzata o con iniziative singole, salgono su qualsiasi rialzo, fosse anche un gradone incontrato per via, ed espongono il proprio hijab lontano dalla capigliatura, in palese gesto di sfida.
Il braccio di ferro con l’Istituzione è aperto. Però quando alcuni reparti della polizia che s’occupa della morale dei cittadini intervengono con decisione e violenza, com’è accaduto nei giorni scorsi a una giovane redarguita in un parco pubblico non tanto perché priva del velo ma perché giudicata una ‘mal velata’ con abiti sgargianti, ne è nato un parapiglia diventato un boomerang per il regime. Un’amica della “mal velata” registrando e postando su Istagram le immagini dell’aggressione ha innescato l’ennesima rabbia contro la repressione dell’abbigliamento. C’è stato uno scossone interno: la vicepresidente degli affari femminili Ebtekar ha condannato il feroce comportamento dei membri del gruppo di vigilanza ed è scattata un’indagine. Accanto a simili questioni, sempre vive poiché riguardano la liberalizzazione dei costumi e princìpi di autodeterminazione di genere, riemerge il malcontento attorno a problemi economici che hanno condotto il governo a introdurre nuove tasse, mentre l’inflazione sale, la disoccupazione pure e taluni strati sociali impoveriscono in maniera non sopportabile. Il governo si giustifica con quella forma di embargo strisciante che, nonostante l’accordo sul nucleare di due anni or sono, conduce molti istituti finanziari a rifiutare investimenti in Iran.
L’amministrazione Trump non ha fatto altro che incentivare gli ostacoli, palesando l’intenzione di rimettere in discussione l’intero accordo. Il quadro internazionale con la crisi siriana incrementa l’irrigidimento delle parti, ma il governo di Teheran enormemente impegnato in quella e altre aree mediorientali (Yemen e Libano) vede parte del suo popolo contrariato e contrario alle enormi spese militari per mantenere quei fronti, mentre in casa c’è chi tira la cinghia e chi si ritrova senza risorse anche per beni primari. Soffiando su questi fuochi accesi, l’ala conservatrice vicina al chierico Raisi e oppositrice del presidente riconfermato Rohani, aveva dato il via, oppure s’era inserita, nelle contestazioni di dicembre, scoppiate non a caso a Meshab, città fedelissima dell’est e serbatoio elettorale di Raisi. In quelle settimane si parlò anche di azioni mosse da sostenitori di Ahmadinejad che venne sottoposto ad arresti domiciliari. Durante l’inverno gli eventi esteri hanno preso il sopravvento, ma non essendosi sciolto nessuno dei nodi economici citati, anzi diventando col passare del tempo ancor più scottanti le contraddizioni riemergono. Certo, ciascuno fa il proprio gioco, e gli interventi di Nikky Haley a commento degli ultimi eventi iraniani, fa rilanciare al vecchio Khamenei il refrain della minaccia alla sicurezza nazionale. Tema cui tutti gli iraniani sono sensibili, ma anche il malcontento può fare la sua parte.   

giovedì 19 aprile 2018

Elezioni turche, la corsa contro il tempo di Erdoğan


Per capitalizzare gli effetti delle ultime mosse sul terreno siriano e la conquista di Afrin Erdoğan in patria gioca d’anticipo sulle elezioni politiche, unendole alle presidenziali previste fra oltre un anno. Forza la mano sull’alleato di comodo Bahçeli che suggeriva il 26 agosto e lancia un’election day per il 24 giugno. Ovviamente si prende la scena commentando che il passo diventa necessario perché la Turchia riesca a superare le incertezze che si stagliano per le situazioni di Siria e Iraq. Ma lascia annunciare il tutto alla figura che, secondo il progetto di Repubblica  presidenziale approvato col referendum un anno fa, verrà soppressa quella del premier. E’ stato, dunque, il primo ministro Yıldırım, ridotto a gran visir di second’ordine, a ufficializzare che il processo elettorale prenderà il via immediatamente. Una commissione sta già lavorando per avviare il dibattito in Parlamento. L’azione presidenziale tende a incamerare elettoralmente quanto più è possibile dai passi compiuti in politica estera, dove l’azzardo che lui ha trasformato in regola ha tempi dettati dall’andamento di vicende che, come dimostra il sipario siriano, sono comunque cangianti e non definite.
In più c’è la non favorevole contingenza di sondaggi che mostrano consensi in calo per l’alleanza fra Akp e Mhp, dati che parlano di diversi punti sotto il 50%. L’accoppiata islamo-nazionalista spera che anticipo elettorale possa sottrarre voti all’opposizione del partito repubblicano, rimasto bloccato dal superattivismo in politica estera del presidente che ha molto puntato sulla carta dell’orgoglio nazionale contro cui il Chp non s’è sentito di muovere foglia, specie dopo il repulisti seguito al tentato golpe gülenista. Mentre il Partito democratico dei popoli vive l’oggettiva difficoltà di riorganizzarsi a seguito delle ripetute azioni repressive avviate contro l’etnìa kurda dall’estate del 2015. Comunque i sondaggi considerano le due formazioni in grado di ribadire le percentuali degli ultimi tempi: 25% i repubblicani e il conseguimento della soglia del 10% per entrare in parlamento da parte del gruppo di Demirtaş. Il problema sarebbe conservare i deputati nel Meclis, visto che più della metà degli  onorevoli Hdp eletti nel novembre 2015 sono stati incriminati per “terrorismo”. Se non un terrore, certamente un brivido d’incertezza all’alleanza Akp-Mhp lo induce l’Iyi Party, fondato nell’autunno 2016 dalla frondista Meral Akşener, lanciata a testa bassa contro la dirigenza di Bahçeli che s’asserviva a Erdoğan.
Akşener è a suo modo una “lupa grigia” ben addentro ai gangli del sistema, perlomeno quello kemalista, in cui ha ricoperto incarichi nel dicastero più amato dalla destra eversiva turca: quello degli Interni. La lupa ha poi tre assi nella manica che intende giocarsi per incrinare il consenso elettorale del sultano. E’ una fedele musulmana e fa leva sulle donne islamiche, gran bacino elettorale erdoğaniano, sostenendo ciò che l’ex premier e ora presidente ha poco concesso: spazio politico di genere. Poi vuol erodere la prerogativa presidenziale della lotta al terrorismo identificato con l’etnìa kurda. Lei sostiene che i diritti delle minoranze semplicemente non hanno diritto di concessioni. Eppure è capace di giri di walzer degni del presidente, perché sul fronte dell’informazione (forse perché massicciamente controllata dal gruppo di potere dell’Akp) Akşener parla a favore della libertà dei media che “non devono essere sotto pressione”. Insomma appare sulla scena l’incognita d’una politica a tutto tondo e senza scrupoli. Per questo l’anticipo delle elezioni potrebbe diventare un sotterfugio per provare a escludere dalla corsa con cavilli burocratici il neo partito, pericoloso perché capace di rubar voti alla coalizione che guida la Turchia. Ma i commentatori economici sostengono che il pericolo maggiore per Erdoğan è un’economia interna in cui l’inflazione sale, la disoccupazione pure mentre la lira turca precipita.

martedì 17 aprile 2018

Crimini di guerra afghani: processi a piacere


Il Tribunale Penale Internazionale, su cui l’associazione afghana Saajs (Social Association of Afghan Justice Seekers) confida per condurre alla sbarra i responsabili di omicidi, rapimenti, torture, stupri, vessazioni che continuano a rappresentare la triste quotidianità in Afghanistan, ha deciso di rinviare la decisione se investigare o meno attorno ai reati compiuti da truppe d’occupazione Nato, governative e milizie talebane. Si dovrà decidere se esaminare il materiale raccolto e ascoltare i testimoni per procedere penalmente, si badi bene, contro individui, non contro governi o gruppi armati. Cosicché già viene meno uno dei cardini per ottenere giustizia su tante nefandezze che hanno presupposti collettivi e rispondono a strategie geopolitiche. In tal senso   testimoni e familiari di vittime, come quelli incontrati in un recente viaggio a Kabul (cfr. http://enricocampofreda.blogspot.it/2018/03/afghanistan-saajs-la-giustizia-contro.html), difficilmente potranno vedere una ricaduta sociale e politica d’una simile procedura. Essa eleva una barriera fra le responsabilità soggettive di chi materialmente ha compiuto gli atti criminali e quelle dei mandanti, svincolando i delitti dai progetti dei vari attori che si muovono nel Paese. Il rinvio assume i contorni della brutta diplomazia, quella compiacente coi poteri forti, quasi non si volesse disturbare il doppio programma in atto: i sempre aperti (sebbene improduttivi) colloqui coi talebani della Shura di Quetta e la preparazione della scadenza elettorale del 2019.
E già gli Stati Uniti hanno annunciato che il Tribunale non ha giurisdizione sui propri cittadini. Mentre la presidenza Ghani, pur affermando una volontà di collaborazione, ha richiamato presunte opportunità del momento, sostenendo che le investigazioni minerebbero la stabilità (sic) del Paese. Forse potrebbe servire più la creazione d’un Tribunale Internazionale rivolto esclusivamente all’Afghanistan, come accadde a metà anni Novanta per le vicende del Ruanda, ma per gli appetiti geostrategici, e ora anche geoeconomici, che la nazione asiatica suscita tutto ciò appare un’utopia. Perlomeno si potrebbe giungere all’avvìo, e si auspicherebbe a conclusione, dei processi contro i crimini di guerra. Ma come esposto sopra, militari e ufficiali Nato risultano intoccabili, del resto giustificano anche le stragi di civili con la ‘lotta al terrorismo’, come pure difficile sembra un’autocondanna per i politici afghani, molti dei quali sono signori della guerra (Abdullah, Dostum) in carica governativa. Potrebbero restare i talebani “cattivi”, visto che con quelli “buoni” e coi loro mentori (Hekmatyar), Ghani è impegnato in trattative. Ma il trio dei giudici neo incaricati (il congolese democratico Mbe Mindua, il giapponese Akane, e l’italiano Aitala) se entro il 20 luglio prossimo non prenderà la decisione di avviare la procedura penale, questa slitterà ulteriormente. Potrà ripetersi quanto già accaduto: il gruppo dei magistrati decade e verrà sostituito da altri colleghi che dovranno riesaminate la documentazione per proporre un processo. Così di rinvio in rinvio il tempo scorre, l’impunità dilaga, i civili muoiono. Ad libitum…

giovedì 12 aprile 2018

Siria, il sogno di salvare i siriani


Nel momento in cui l’ennesima ora x sembra incombere sulla crisi siriana, le mappe di quel territorio periodicamente aggiornate dai media, secondo le indicazioni fornite dagli osservatori militari internazionali, mostrano una situazione tuttora frastagliata. Sono quattro le componenti interne che lo controllano: governativi, ribelli siriani e turchi, cosiddetti ribelli siriani cioè le forze restanti del Daesh, Unità di protezione del popolo kurde. Paradossalmente quest’ultime, abbandonate da ciascun alleato tattico del biennio passato, e invise un po’ a tutti, controllano la parte maggiore di quelle aree divise: tutta la parte nord (a eccezione di Afrin di recente invasa da turchi ed Esercito siriano libero) e l’est. Giorni addietro coloro che paiono i vincitori di questa guerra infinita (Russia, Iran) più la Turchia, pianificavano ad Ankara interessi e giurisdizione di ciascuno, pur in un conflitto in corso che continua a proporre colpi di coda. L’uscita di Trump che minaccia attacchi punitivi a Damasco, dopo aver ribadito il disinteresse per quell’area, riconduce l’ulteriore dramma che si somma a quello specifico di vite sacrificate dall’anno 2011. L’uso delle vicende siriane per interessi personali, geopolitici, strategico-militari che alcuni potenti del mondo e potentati regionali rilanciano senza sosta.
Lanciare missili Tomahawk sulle basi siriane colpevoli o meno di uso di gas sui civili, è l’azione da minacciare o mostrare all’opinione pubblica americana e planetaria per evidenziare un ego zeppo di pecche, quelle note e quelle aggiunte e presumibilmente legate alla sua stessa elezione. Certo, non tutto può essere arma di distrazione di massa, ma non è sicuramente il presidente del Paese che pratica l’Imperialismo con la maiuscola a difendere le vite dei civili, in Siria e altrove. Quelle vite disprezzate, assediate, stroncate da gran parte dei diversi contendenti è l’unica certezza, nel dipanarsi di reiterati misteri. Chi usa i gas? Lealisti, jihadisti, entrambi? Le dichiarazioni di ognuno negano, smentiscono. I volti dei soffocati sono terribilmente visibili, non solo in immagini che non possono esser tacciate di finzione, come in questi anni non sono state finzioni ammazzamenti, torture inflitti non solo a nemici. Bashar Asad può anche fregiarsi dell’affetto di quei siriani che continuano a sostenerlo, ma non dovrebbe chiudere gli occhi di fronte alla tragedia dell’intero popolo che continua a morire. Muore per le atrocità dei jihadisti e anche per mano dei lealisti a lui fedeli, sia in divisa dell’esercito, sia strutturati nelle unità paramilitari, i famigerati šabbīḥa sui cui sanguinari interventi molti testimoni discorrevano ben prima di questo conflitto.
Erano interventi contro la popolazione sunnita, che si dichiarava discriminata dal regime degli Asad, non solo con le proteste dei primi mesi del 2011, ma con rivolte antiche, come quella di Ḥamā repressa nel sangue da Hafiz nei primi anni Ottanta. Storie sedimentate, su questioni irrisolte, trascinate nei decenni con enormi contraddizioni che una volta riemerse, sono state sfruttate e strumentalizzate da varie figure politiche, cui è stata armata la mano dagli stessi personaggi che, come Erdoğan e Trump, si ergono a risolutori di problemi o vendicatori dell’ultim’ora. Più del meschino comportamento dell’attuale presidente siriano, che potrebbe fare il bel gesto lasciare il Paese che anch’egli contribuisce a distruggere, compiendo un passo autolesionista per gli interessi di clan ma generoso per la salvezza di quei siriani ancora in vita, appare cinico il calcolo di Putin e Rohani che lo tengono sul piedistallo per trarne vantaggi diretti. Tutto secondo il codice geopolitico: basi militari e avamposti per strategie, ahinoi, prevalenti anche su altri fronti. Ma questa geopolitica ci potrebbe risparmiare pseudo motivazioni di salvaguardia verso lo status quo minacciato da terrorismi e fondamentalismi. Il suo fondamentalismo militarista uccide da anni su quella terra e altrove. La guerra non sarà atomica ma è atomizzata nei mille rivoli insanguinati dell’industria bellica di cui si nutrono le attuali civiltà.   

sabato 7 aprile 2018

Gaza, la terra e la libertà sacrificando la vita


L’inferno della Striscia è fumo nero e gas dentro cui fischiano i proiettili. Chi manifesta per un ritorno che è a rischio morte lo fa con la coscienza che noi crediamo disperazione. Ma chi vive in quella prigione che Tsahal trasforma in cimitero sta solo ricercando la vita. Il mondo non vuol comprendere, non vuol saperne di diritti palestinesi tant’è che a mala pena ne parla e ne parla perché riporta notizie di vittime. Ieri nove. Però lo fa con sufficienza, per cronaca, ripetendo che Israele aveva ribadito le sue regole d’ingaggio. Le quali, già dal precedente venerdì, sancivano l’assassinio. Non era servita una settimana perché i potenti del mondo e del Medio Oriente facessero qualcosa, pronunciassero una nota di sdegno. L’aveva fatto Erdoğan ma per sé, innescando un battibecco con Netanyahu che non mutava niente su quei confini dove la protesta ieri ha ampliato i numeri e Israele ha ripreso a colpire bersagli umani. Alcuni ben scelti dai cecchini. Yasser Murtaja era uno di questi. Lavorava per l’agenzia locale Ain Media producendo foto e video.
E’ stato individuato con cura dal killer in divisa con la stella di David. Portava ben visibile la dicitura press. Era, dunque, uno di quei testimoni che i criminali su tutti i fronti odiano: i giornalisti. Coloro che possono testimoniare, possono narrare con parole e immagini gli scempi compiuti per ‘ordine’ e per ‘dovere’. Categorie disumane in certi scenari, dove chi si fronteggia risultano soggetti ben diversi: soldati armati contro cittadini inermi. Ieri ancora una volta questa era la scena sul confine fra la Striscia e Israele, su quella terra che bande armate sioniste costituitesi in esercito strapparono a un popolo che le abitava da secoli. Quel 15 maggio 1948 ricordato da Israele come nascita del proprio Stato e come Catastrofe dalla gente di Palestina costretta alla perdita di familiari, case, terra e alla fuga, è da settant’anni materia di contesa ed è motivo della protesta di queste settimane. Il mondo non capisce, è stanco di capire, non ha mai compreso o non vuol comprendere il dramma di persone costrette da quattro e più generazioni a vivere da profughi.
Israele prosegue a raccogliere nel suo Stato gli ebrei di lontane provenienze, accasati in altre nazioni rivendicando un diritto al ritorno su quella terra. Lo stesso diritto che nega ai palestinesi e che viene richiesto dai manifestanti di cui Hamas si fa portavoce. Queste premesse vengono taciute da gran parte dell’informazione. Molti media citano, e come potrebbero non farlo, i morti di queste ore ma vagano sui motivi. Spesso accolgono le veline della propaganda di Netanyahu e rilanciano il refrain del pericolo terrorista insito nei piani di Hamas. In queste ore a fare da bersaglio alla smania stragista di Israele c’è la gente oppressa di Gaza. Migliaia di giovani, certamente rabbiosi, nel vedere il proprio sangue spargersi sull’agognata terra. Quella terra, quella libertà di viverla Israele stragista e il mondo immobile le negano a una popolazione cosciente e coraggiosa che reclama un futuro e rischia la vita per averlo.
  

mercoledì 4 aprile 2018

Russia-Turchia-Iran: la Siria e il Medio Oriente del futuro


I protagonisti e signori della geopolitica mediorientale s’incontrano ad Ankara per discutere di presente e futuro, della Siria e non solo. Il passato siriano col mezzo milione di vittime, i tredici milioni di sfollati in gran parte civili, non sembra sfiorare i presidenti Putin, Erdoğan, Rohani. I  triunviri che decidono cosa fare d’una nazione che l’iniziale conflitto fra ribelli e Asad, e l’ingresso in forze dell’Isis ha trasformato in una carneficina. Come in tutte le guerre. E più di tante guerre non c’è stato finora nessun sentimento d’umanità, di solidarietà non tanto col nemico, ma verso chi restava e resta schiacciato fra le decine di forze che si scontrano su fronti flessibili, con alleanze volubili che hanno visto riunirsi anche chi si collocava su versanti opposti. Oggi una Russia in piena volontà di potenza nel Medio Oriente, dove la politica statunitense degli ultimi anni oggettivamente ambigua, vile e in vari casi autolesionista ha incrementato le già cospicue contraddizioni decennali, è il perno che attrae due contendenti regionali diventati alleati. L’aggressiva Turchia e il vigilante Iran si stringono la mano, perché un laico in odore di islamizzazione interna e internazionale e un chierico, per giunta sciita, dai modi compassati e secolari si ritrovano faccia a faccia a decidere cosa fare di un’antichissima terra. La Siria, nazione moderna nata sulle mappe coloniali di Sykes e Picôt e gestita in chiave teoricamente socialisteggiante da una delle meteore del terzomondismo, trasformatasi in clan, prima dispotico poi assassino di una parte del suo popolo, è da anni un alleato strategico dell’Iran. Dei suoi piani di sostegno alla componente sciita che vive nel sud del Libano.
La conservazione del Paese e di quel sistema di governo interessa soprattutto a Teheran, oltre che a Mosca che già in epoca sovietica aveva nella famiglia Asad un alleato fedele che consentiva alla flotta russa di stazionare nel porto di Tartus, dunque nel Mediterraneo. Una spina nel fianco nel sistema Nato. Congelare la Siria al suo passato, con tutte le contraddizioni politiche interne, non appassionava invece Erdoğan, che infatti dal 2013 ha offerto frontiere e aiuti bellici a jihadisti di passaggio e di casa che s’infilavano in Siria per ampliare quel Daesh previsto e inseguito in terra irachena. Da mesi, però, il sultano ha sorpreso tutti. Ha mollato gli islamisti alla propria sorte unendosi con russi e iraniani che, oltre a impiegare uomini e mezzi di terra e aria a difesa dell’integrità siriana, difendono le sorti del presidente. Con loro, grazie a loro Asad potrà continuare a guidare quel che resta del Paese. La Turchia, alleata di punta della Nato nel Mediterraneo orientale, s’è avvicinata a questo fronte, chiedendo e ottenendo via libera contro le enclavi kurde. Così è iniziato il declino d’un pezzo del Rojava; non è detto che la furia azzeratrice di Erdoğan si fermi ad Afrin e non venga richiesta anche l’occupazione degli altri cantoni gestiti dal Partito dell’unione democratica che Ankara considera una costola del Pkk. Costola da frantumare. Per consentire l’operazione ‘Ramoscello d’ulivo’ Putin ha rimosso le sue truppe di terra e aperto lo spazio aereo ai jet turchi, Rohani ha guardato altrove, gli Stati Uniti che a lungo si son serviti del sacrificio umano e spesso femminile delle Unità di protezione del popolo nella guerra all’Isis si ritirano, come sostiene Trump, dall’intero impegno nella regione.
Asad, per parte sua, il Rojava l’ha sempre al più sopportato, non certo amato. Dunque ad Ankara si perfeziona quanto già discusso a Sochi: mantenimento del regime di Asad nella Siria legittima, se possibile riconquista di territori ancora in mano ai ribelli, cancellazione dei territori autogestiti dai kurdo-siriani abbandonati da tutti. Chi sta guadagnando maggiormente in tale patteggiamento è proprio il presidente turco che riceverà fra un anno anche la prima batteria missilistica di S-400 russi. Fattore che allarma il Pentagono perché i codici segreti dell’alleato turco dovrebbero interagire, dunque essere svelati, ai militari russi. Da quest’apertura la Turchia riceverà pure benefici di tecnologia energetica.  Nei patti con Putin c’è il via libera alla costruzione della prima centrale nucleare ad Akkuyu sulla costa mediterranea, a neppure 200 km dalla base Nato di Incirlik. Il progetto (20 miliardi di dollari e realizzazione da parte della società russa Rosatom, che però cerca un partner locale cui affidare il 49% delle azioni) era predisposto dal 2010. Rientrava nella pianificazione modernizzante varata da Erdoğan per la grande Turchia del centenario nel 2013, momento topico che lui vuole presenziare per oscurare Atatürk ed entrare nella leggenda. La contrarietà d’una componente verde, giovanile e dell’opposizione politica - i ragazzi di Gezi park per intenderci, totalmente azzerata o azzoppata dal clima di repressione e intimidazione - cade nel vuoto e la politica internazionale, come spesso accade, va a consolidare gli interessi e le opportunità della politica nelle singole nazioni. Ciascuno dei triumviri guadagna qualcosa, nessuno ha interesse a proseguire la guerra, ma non è detto che questa sia chiusa. Finora perde il sogno del Rojava.

martedì 3 aprile 2018

La Striscia rossa di sangue che segna la morte a Gaza


Sei un occupante, sei un terrorista grida Erdoğan a Netanyahu e ci sta tutto. Da parte sua il premier israeliano rispedisce al mittente, dicendo di non prendere lezioni da Ankara, ma senza la determinazione d’altri momenti, ritenendo l’uscita del presidente turco quasi una posa passeggera fra il turbillon di cose da lui dette, fatte e smentite negli ultimi due anni. Il sultano, che reprime a spron battuto dentro e fuori dai confini anatolici, non vanta più il credito che aveva ai tempi della Mavi Marmara. Quant’è accaduto dopo quei fulmini ha evidenziato tutta la sua peggiore ragion di Stato, volta solo a consolidare il proprio potere dentro e fuori la Turchia. Usare la causa palestinese sembra ormai una speculazione, come hanno fatto i raìs egiziani fino alla guerra del Kippur, vista la sostanziale sudditanza che le successive leadership del Cairo hanno avuto verso le trame tracciate da Washington e Tel Aviv. L’Erdoğan che usa il terrorismo, sia quello foraggiato, sia quello di Stato per sostenere un percorso autocratico e nazionalista, ha scarsa credibilità perfino fra gli islamici. Il guaio è che il popolo palestinese è sempre più solo. A Gaza come in Cisgiordania. Prigioniero nella Striscia e soffocato nella West Bank, sebbene nella prima si muoia di più e si soffra ogni patimento, mentre dalle parti di Ramallah l’Autorità Palestinese tiene in piedi la rappresentazione scenica d’un autogoverno soggiogato, schernito, umiliato da Israele, seppure blandito dai fondi internazionali che consentono una sopravvivenza.
L’iniziativa di Hamas sul ‘Diritto al ritorno’ che vede in questi giorni migliaia di persone manifestare rischiando la vita (i martiri del venerdì di passione sono saliti a 18 per il decesso di due feriti gravi) sarà anche una mossa con cui un partito in crisi identitaria e in palese difficoltà di gestione d’un territorio, che le voci più insospettabili definiscono una prigione,  cerca di rilanciare se stesso agli occhi di concittadini sottoposti a ogni sorta di sacrificio, ma è comunque un atto politico. Quello di cui è privo il partito Fatah, totalmente prostrato a logiche antiche cui aveva abituato anche l’ultima gestione di quel padre d’una patria patteggiata e mai realmente raggiunta, il mitico Yasser Arafat. La frattura fra Hamas, che prese il potere nella Striscia con libere elezioni del 2006 e si trovò a ribadirlo a colpi di kalashnikov un anno dopo con scontri fratricidi capaci di segnare ferite profonde, e l’Autorità Nazionale Palestinese sembra rimanere. Nei mesi scorsi i due partiti hanno provato a riconciliarsi attorno a una delle enormi contraddizioni di questo stato di cose: la gestione dei fondi internazionali rilasciati unicamente all’Anp. Per far fronte all’emergenza alimentare, energetica, sanitaria di Gaza, i vertici hanno provato ad accordarsi in tal modo: le frontiere della Striscia, diventate in tanti casi bollenti per via delle proteste e dei “tunnel della salvezza” passano sotto il controllo di Fatah, la sicurezza interna è garantita da Hamas.
Così gli uomini (pure armati) di Abu Mazen son potuti rientrare da dov’erano stati cacciati, mentre le gravissime difficoltà di sopravvivenza dei gazawi, che tanta impopolarità hanno creato agli amministratori di Haniyah, venivano lenite. Ma è il classico pannicello. La Casa Bianca e gli attori che presiedono l’irrisolta questione israelo-palestinese usano questi fondi come esca per controbilanciare ogni mossa d’Israele. Nei decenni s’è trattato di reati: colonie illegali in Cisgiordania, requisizioni e abbattimenti a danno dei palestinesi, loro arresti e uccisioni, fino ai massacri organizzati, da ‘Piombo fuso’ a ‘Margine di protezione’. Quei dollari impediscono lo sviluppo di un’economia autonoma, di fatto rendono un intero popolo schiavo d’un sistema assistenzialista che ne prostra la politica e ne impedisce l’emancipazione. Non è una novità. E’ un meccanismo messo a punto da decenni dai sostenitori di un Israele non solo sionista, ma decisamente razzista che teorizza lo Stato per soli ebrei a cui danno fiato tante anime belle e progressiste. Egualmente il mondo arabo con la sua Lega, le nazioni simbolo, dall’Egitto alle monarchie del Golfo passando per Turchia, hanno offerto solidarietà morale, talvolta materiale, ai palestinesi senza sostenerne uno sbocco politico. Quest’ultimo offuscato, svilito, ripudiato da compromessi e contrapposizioni, ma soprattutto maciullato da Israele che ha fatto della sopraffazione la propria essenza, appare come la gravissima colpa della politica. Di tutti. Resta una resistenza sempre più spontanea, spesso individuale, dai grandi entusiasmi giovanili, purtroppo dagli effetti limitati. Una striscia rossa su una Striscia di terra.