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lunedì 26 giugno 2017

Turchia e Iran: mani tese al Qatar

Altro che chiudere Al Jazeera, mossa velleitaria cui probabilmente non credono neppure i Saud, anche perché trova contrario l’Occidente che difende il sistema mediatico. Contro l’isolamento del Qatar accorrono due potenze regionali che non si amano, ma tantomeno sopportano la smania egemonica di Riyad: Turchia e Iran. I cui uomini chiave, Erdoğan e Rohani, intervengono entrambi sulla delicata situazione nel Golfo. Rispondendo a una richiesta proveniente dalle nazioni che hanno mosso l’attacco politico al Qatar (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Oman, Egitto) di chiudere una sua base militare in Qatar, il ministero degli Esteri turco ha ufficialmente dichiarato che la presenza del centinaio di propri soldati su quel territorio è funzionale alla comune visione della sicurezza e della pace esistente all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Un accordo sottoscritto nel 2014 fra Ankara e Doha che, da parte turca, conserva un valore strategico perché agisce sull’addestramento e sul supporto militare a un Paese che fa parte della coalizione. In merito era già intervenuto personalmente il ministro Çavuşoğlu, colloquiando con gli omologhi saudita, al-Jubeyir, e qaratiota, Abdurrahman al-Thani. A entrambi aveva espresso il diritto-dovere turco di valutare quel che, a proprio avviso, ci fosse di “corretto e sbagliato” nel contrasto fra due Paesi fratelli e fin poco tempo addietro alleati. Un intervento ancora più pesante è venuto dal presidente turco che, parlando fuori della moschea di Istanbul in occasione della preghiera dell’Eid al-Fitr per la fine del Ramadan, ha sottolineato come i tredici punti dell’ultimatum rivolto dai sauditi e dai fedeli alleati al Qatar (fra cui c’è la chiusura della celebre emittente televisiva) violassero le leggi internazionali, andando ben oltre il lecito.  “Si tratta d’un vero attacco alla sovranità d’uno Stato” ha tuonato Erdoğan.
Rincarando la dose, ha aggiunto che la richiesta della soppressione della base militare turca è una vera “mancanza di rispetto” a un Paese che contribuisce alla sicurezza della regione. Ha ricordato, altresì, d’aver controbilanciato la presenza dei suoi militari, offrendo ai sauditi la costruzione di una base turca anche sul loro territorio. Infine la stoccata a evidenziare il concetto di potenza: “Nel cooperare per la difesa di una nazione alleata la Turchia prende accordi, ma essa non è uno Stato qualunque”. Emiri avvisati, dunque. Materia tutt’altro che secondaria della contesa sono i legami che il Qatar ha da tempo con la Fratellanza Musulmana, malvista dalla dinastia saudita e dalle monarchie satelliti in quanto movimento politico che predica giustizia e riscatto sociale contro i poteri tirannici, laici o di teste coronate. La Brotherhood ha preso parte alle rivolte delle primavere arabe, che sono state evidenziate dall’emittente di Doha, taluni sostengono anche enfatizzate e pilotate. Quest’antico movimento islamista viene accusato di fondamentalismo terrorista, oltreché da certo Occidente volutamente polarizzatore, dalle petromonarchie. Queste, covando il wahhabismo, ne sostengono la predicazione radicale assieme ai finanziamenti al jihadismo stragista, un tempo di Qaeda ora dell’Isis. Insomma il gioco saudita di accusare l’emiro al-Thani di ciò che da alcuni anni rappresenta un suo impegno palese: il supporto al fondamentalismo salafita, appare pretestuoso. Non irreale, perché tale appoggio, utile per destabilizzare a proprio vantaggio un’area geopolitica, vede sauditi, qatarioti e gli stessi turchi, autoproclamatisi gendarmi della sicurezza, tutti insieme mestare nel torbido e accusarsi vicendevolmente.

Come altri protagonisti mediorientali e certi colossi mondiali. La chiamata di correo coinvolge l’Iran, che certamente non finanzia l’Isis, anzi ne ha recentemente subìto uno spettacolare attacco, però impegna i suoi interessi geopolitici in alcuni Paesi e su certi campi di battaglia. E’ accusato, anch’esso da sauditi (e non solo) d’ingerenze, espansione, sostegno illecito attraverso le componenti militari sciite in Libano, Yemen, Iraq. Ma nel gioco delle parti anch’esso offre sponda al Qatar. Sia per affarismi da non lasciar cadere, come un nuovo immenso giacimento di gas che insiste nel sottosuolo marino del Golfo Persico fra le due nazioni; sia per cavalcare vantaggiosamente lo smarcamento, seppure indotto dall’emarginazione, della dinastia al-Thani dagli altri emiri, soggiogati dall’obbedienza a re Salman e all’egocentrico neo erede Salman bin. Così nella sagra dei pronunciamenti è subentrato anche Rohani, che ieri ha annunciato come fratellanza e amicizia sono i profondi sentimenti che legano il popolo iraniano all’intraprendente Qatar. “I nostri settori economici – ha detto il presidente a Teheran – hanno e devono continuare a sviluppare favorevoli relazioni mercantili attraverso la cooperazione e il dialogo”. Adducendo la totale incomprensione attorno all’embargo proposto dai sauditi contro Doha, il chierico moderato ha ricordato che gli spazi aereo e marino fra le due nazioni sono totalmente aperti e protetti militarmente per sopperire a  ogni sorta di eventuale necessità dei qatarioti. Nonostante l’impegno di Riyad, Abu Dhabi, Manama, del Cairo e di Tel Aviv l’embargo contro i due milioni e mezzo di cittadini del Qatar sembra inefficace: i rifornimenti dalla Turchia e quelli da Teheran impediscono il soffocamento di servizi e alimenti. Sull’impatto geopolitico della crisi, si vedrà.     

sabato 24 giugno 2017

Periferie, ideali e lotte “Leggeri e pungenti”

Con la categoria di Tano D’Amico, fotografo poi celebre e celebrato, noi della militanza estrema, ed estremista secondo il revisionismo allora corrente, avevamo un gioco di sguardi. Ci scrutavamo a distanza più o meno ravvicinata. Le sue pupille, parzialmente celate dalle lenti, cercavano il particolare o il tuttotondo su cui far scattare la lente preziosa dell’obiettivo. Quello con cui per anni, diventati decenni, ha descritto attraverso la luce ciò che faceva una collettività in cerca d’una nuova vita. Era il 1973 e noi, a tutela di noi stessi e di quel che facevamo, dovevamo evitare di mostrarci, dovevamo esserci e non essere visti. Tantomeno dai fotografi. L’anno seguente la situazione precipitò, quando certe immagini scattate chissà da chi corredarono il dossier con cui due magistrati indagavano sulla “struttura paramilitare di un gruppo extraparlamentare” che andava per questo perseguito. Adrenalina e paranoia degli interessati crebbero a tal punto che fotografi amici, come Tano, e quelli appartenenti alle forze dell’ordine o coloro che collaboravano con esse infiltrandosi nei cortei, rischiavano le rabbiose reazioni di chi non voleva finire schedato, con tanto di immagini, poi riprese anche da un noto periodico italiano. Tano, però, ebbe il salvacondotto. Chi ci guidava confermava la neutralità del suo scatto sul fronte della sicurezza e noi, di lui, da quell’istante ci siamo fidati. Ce lo trovavamo accanto in situazioni a dir poco velenose, fra fumi e spari, dove lui rischiava ben più del militante inquadrato nella lotta.
Tano testimoniava e scriveva con la luce le poetiche pagine di popolani e quartieri ribelli. Mai domati. Le periferie dei Settanta venivano direttamente da quelle dei Sessanta e dei Cinquanta. Una continuità proletaria trasferita da padri, zii e fratelli maggiori, un cordone ombelicale che i partiti dell’oblìo negavano e che invece era lì con la stessa bella bandiera rossa. In quella che oggi si definisce emergenza abitativa e che all’epoca era la lotta per la casa. Di quelle battaglie, in una dolce serata in un Centro sociale di Roma sud-est, mentre si parlava di storie e volti della periferia di sessanta e cinquanta anni addietro raccolti nel libro “Leggeri e pungenti”, il fotografo D’Amico ha aperto lo scrigno dei ricordi. Tutti preziosi, perché densi di passione popolare. In ogni epoca solo chi ha cuore lotta. E in quei conflitti per la casa in cui fu trascinato perché apprezzato nel sentimento che trasferiva al meccanico clic, Tano scopriva un mondo. Del bisogno e del coraggio, della determinazione e della volontà di riscatto. Non della disperazione, ma della dignità. Noi che della solidarietà militante rappresentavamo l’energia muscolare e tiravamo celandoci, perché degli uomini in divisa e plexigas siamo sempre stati acerrimi nemici, ripetevamo le corse e le fughe che dai pratoni dietro la palla trasferivamo ai lati di jeep e blindati. Le Luigine che occupavano, le avevamo conosciute nelle casupole del borghetto e sotto l’acquedotto, seguendo i compagni che ne organizzavano il riscatto, visto che l’ora precaria de “Il tetto”, ricordato nel nostro discorrere, doveva avere giustizia sociale. Magliana, Casalbruciato, San Basilio, con tanto di lutto per Fabrizio Ceruso e la polizia che spara e gli spari nella buia notte.

Cos’è rimasto? Qualcosa, oltre il ricordo. Troppo poco per la grandiosità delle antiche lotte che assieme a quelle milanesi di Testi e Famagosta (ma c’erano Torino, Firenze, Napoli, Palermo) hanno rappresentato l’apice di un contropotere teorizzato in politica e attuato da chi legava bisogni e sogni. Però vien fuori che inevitabilmente, e inesorabilmente, siamo cambiati. Non solo invecchiati, che è nella natura. Sembra mutata la natura popolare; e la solidarietà successiva alla poesia d’un ricordo, lanciato ancora da Tano, rimane impresso sulla pellicola della mente. L’occhio inquadra una rete, la recinzione della romana ‘Santa Maria della Pietà’ pre Basaglia. Di qua mani di bambini che s’infilano negli interstizi a maglia non tanto fitta, di là manone dentro cui quelle piccine entrano cinque volte. Nel contatto umano fra bimbi e “matti”, che le acculturate mamme odierne eviterebbero, le genitrici d’un tempo facevano porgere sigarette, ricevendo in cambio la frutta coltivata nel giardino interdetto ai “sani”. E quando i cancelli s’aprirono fu la gioia dell’evasione. Le donne dei lotti di Primavalle imbandirono tavolate, ricostruendo per via quell’aria paesana che inondava le periferie dei Cinquanta. Una festa per la sana follìa. Sprazzi d’identità resistente che s’è gradualmente sbiadita, sino a smarrire quel senso di appartenenza. Classe per la politica buona. Radici per i poeti della canzone. Ci siamo intesi, eppure non è nostalgia ciò che resta. E’ memoria, da non smarrire perché le enclavi resistenti come l’ospitante Cortocircuito, e ciascuno di noi nell’impegno quotidiano, rilancino l’animo presente e orgoglioso di ciò che è stato. La storia delle periferie è storia di popolo, ieri come oggi, immigrato e umile ma caparbio e vigoroso. Possiamo ripartire da questo: ci sono tanti anni di lotte nel nostro futuro.  

mercoledì 21 giugno 2017

Arabia Saudita, Salman bin promosso erede al trono

La smania muscolare che annida fra i Saud trova un interprete rampante e pretenzioso in Salman bin il cui papà, contravvenendo a quanto aveva disposto tempo addietro, ora innalza a erede al trono. Viene scalzato il nipote Mahammed bin Nayef, già designato come delfino e ieri disconosciuto grazie al voto espresso a larghissima maggioranza dal Consiglio di Fedeltà all’Arabia Saudita. Alla Mecca 31 membri su 34 hanno avallato il cambio in corsa. Sauditi a volto scoperto, dunque, se ancora fosse servito celare le concrete intenzioni egemonico-guerrafondaie della dinastia di Riyhad. Evidentemente l’ottantunenne re Salman, che due anni e mezzo fa nel prendere il posto di re Abdallah, aveva cercato di mediare coi fratelli la successione destinandola a un nipote, si è convinto ad accelerare i tempi favorendo l’elemento che più di altri incarna la smania di potere della famiglia, che esula dalla sfera affaristico-economica. Un potere che adesso mette al centro la figura del rampollo trentunenne, il quale, oltre a conservare la carica di ministro della Difesa, viene anche nominato primo ministro. E se da una parte ben pochi credono alla finzione democratico-rappresentativa di cui il regime s’ammanta, dall’altra la mossa costituisce un accentramento intenzionato a sottolineare la forza e il credito di cui Salman junior gode.
In contemporanea a bin Nayef si ritaglia il ruolo di ministro degli Interni e altre scelte riguardano Nasser al-Daoud che riceve l’incarico di sottosegretario al ministero degli Interni. Il principe bin Faisal bin Abdulaziz diventato consulente della Corte reale, e tal Faisal Sattam è nominato ambasciatore del casato in Italia, come pure altri principi vanno a occupare ruoli diplomatici. Non abbiamo notizie sugli orientamenti di quest’ultimi, ma vista l’entità della svolta c’è da giurare che la monarchia si stia dotando di figure completamente acquiescenti alla linea geopolitica assunta dopo gli accordi di Riyad con Donald Trump. Ritocchi pure negli apparati di sovrastruttura (l’Autorità per lo sport) e in quelli più sostanziali del governatorato del Golfo e dell’Intelligence. Locali agenzie danno a questi trasferimenti tattici una veste sacrale quando riportano la dichiarazione della Casa reale sulle norme che “passano ai figli del fondatore re Abd al-Aziz e ai figli dei loro figli. Una verticalità che concorda coi princìpi del Santo Corano e la tradizione del venerabile profeta” sebbene quest’ultima valutazione sia una libera interpretazione, a proprio favore, dei testi sacri islamici. Come sempre i Saud usano la religione per avvalorare fra i fedeli sunniti un’investitura divina che ne blindi a tuttotondo l’operato.
L’investitura è direttamente correlata con la crisi col Qatar di cui la politica estera è il fulcro. Su questo terreno il piccolo Stato e la dinastia al-Thani, che lo governa, rompono lo schema di subordinazione accettato da altri (EAU, Oman, Bahrein). In grave crisi lo Yemen, stritolato dalla guerra civile e dove i sauditi misurano sul terreno armato con l’Iran la forza egemonica nella regione, e ultimamente anche il Kuwait mostra un comportamento meno acquiescente ai voleri sauditi. Certo, le petromonarchie con l’ausilio dell’Egitto del golpista al-Sisi costituiscono un blocco con cui non è facile misurarsi anche sul terreno di quelle che negli ultimi tempi sono state le armi più potenti di Doha. Media, finanziamenti, diplomazia economica. L’ultimo rampollo al-Thani ha esaltato ciò che da circa un ventennio i predecessori incentivavano. La creazione e l’implemento dell’emittente Al Jazeera è stata una delle iniziative più azzeccate dall’emiro bin Khalifa e ha rappresentato, e rappresenta, un prezioso strumento di orientamento, anche per l’eccellente professionalità con cui muove l’informazione. Il quarto figlio e suo successore Tamim, già dall’abbigliamento ha scelto di rompere le barriere formali con l’Occidente e usa lo sport quale strumento diplomatico di prim’ordine (investimenti in club calcistici, finanziamento di grandi eventi dai Giochi asiatici ai Mondiali di football).

Oltre a sovvenzioni dirette come quelle immobiliari realizzate, ad esempio,  a Milano-Porta Nuova. Così il piccolo Qatar s’è aperto al mondo non solo vendendo gas e idrocarburi, ma diversificando il suo impero dei petrodollari. Giocando anche sporco, se certi denari sono finiti a finanziare direttamente o indirettamente il terrorismo jihadista, un’accusa che, però, le contigue dinastie del petrolio non possono lanciare senza il rischio di vedersi coinvolti in una collettiva chiamata di correo. Fra tanta spregiudicatezza alcuni commentatori, come uno dei decani di Al Arabiya (la tivù saudita concorrente di Al Jazeera, seppure con minore successo) al-Rashed, sostengono che l’impatto mediatico e finanziario non salverà  Doha dall’isolamento in cui i Paesi fratelli (e sicuramente anche coltelli) l’hanno spinta. Visto che la geopolitica necessita di relazioni Diplomatiche con la maiuscola, quelle che passano per investimenti ed economia sono importanti ma non vivono senza l’ossigeno della politica. E su questo terreno il clan al-Thani non può spendere tutto ciò che mostra su altri tavoli. Fra i colossi mondiali gli Usa hanno compiuto la propria scelta e i qatarioti non hanno al proprio fianco un padrino che possa difenderli se i petrodollari dovessero lasciare il passo alle petroarmi. Insomma, secondo Rashed, dalla base di al-Udeid (base aerea Nato in Qatar) non s’alzerebbe un solo caccia statunitense o britannico a difesa degli al-Thani. Chissà se per festeggiare la prossima corona bin Salman vorrà unire all’idea di soffocare l’ambizioso Tamim con un embargo (tutto da provare, nonostante una geografia favorevole) anche uno sfregio militare. Il  laboratorio mediorientale le sta provando tutte.

lunedì 19 giugno 2017

Voglio uccidere i musulmani


Nella testa del conducente-vendicatore, bianco, forse britannico - cattolico, protestante, ebreo o non credente non importa - Finsbury Park si prende la rivincita su Westminter e London Bridge. “Voglio uccidere i musulmani” è l’essenza di un pensiero che se per ora può contare sull’esempio di un ‘lupo solitario occidentale’ magari darà vita a gruppi di fondamentalisti anti islamici che in geopolitica esistono già, organizzati in eserciti, prima che in gruppi paramilitari. Quest’ultimi in periodi vicini e lontani della Storia hanno rappresentato drammatiche realtà, tutte giustificate dall’immediato orizzonte degli eventi, e poi ripensate con parziale ammissione di colpa, anch’essa non sempre scontata. Le sete omicida trasformata in atto dall’ennesimo attentatore londinese, che ha lanciato l’automezzo della follìa su una folla di fedeli uscita da una delle ultime preghiere collettive dell’annuale Ramadan, è qualcosa di già scritto e formulato in soluzione alternativa “per non soccombere” da teorici della politica del razzismo muscolare e da intellettuali che cavalcano il tema con raffinata scrittura. Un plot ricamato attorno all’intreccio del sanguinario Islam jihadista che sgozza e spappola sotto le ruote le esistenze, simili nel tran tran metropolitano, diverse nei princìpi dei sacri libri, degli infedeli. Così i fedelissimi alla ritualità della morte trovano spazio, motivo e missione anche sul fronte opposto.
Vestono in tutto e per tutto l’ideale del crociato, contro cui i miliziani della mezzaluna hanno lanciato una guerra che dev’essere di attacco continuo, fino a schiacciare l’avversario. Il sindaco di una Londra stordita, Sadiq Khan, la premier di una nazione barcollante, Teresa May, pur nella boria dell’Impero che fu, possono rappresentare l’immagine del politico occidentale ubriaco fra eventi che non governa più. Come i colleghi di un Occidente che fra comprensione, mediazione, chiusure, parziali o totali, a inarrestabili flussi migratori, mostra soprattutto l’inefficacia d’un sistema politico-economico che poco integra e tanto scava in diversità sociali, alternando ghetti a scatole cinesi dove la convivenza fa a pugni con le tradizioni che ciascuna etnìa, fede, comunità considera irrinunciabili. Ovviamente c’è chi lavora per un dialogo, di per sé difficilissimo, ma è una minoranza. Perché tanti dei presunti incontri, rapporti, dialoghi, aperture ruotano esclusivamente attorno al business che oggi unisce, domani può dividere. Mentre la macro storia parla il burocratese diplomatico di facciata, che quando non s’accorda sfocia in contrasto senza soluzione di continuità, le teorie degli untori dello scontro fra civiltà, sui media mainstrem ne siamo assediati, forniscono carburante ai combattenti di un odio che deve diffondersi. E non potrà che proseguire se tutto, come sembra, resta invariato.

sabato 17 giugno 2017

Turchia cerca una mediazione fra le petromonarchie

Il ministro degli Esteri turco Cavusoğlu è volato in Kuwait per tessere una tela relazionale fra i Paesi del Golfo dopo la tensione che da due settimane ne contrappone alcuni al Qatar. A Kuwait City ha incontrato l’omologo locale Sabah Khaled al-Sabah con l’intento di creare una mediazione fra le case regnanti attualmente ai ferri corti. Ai funzionari qatarioti presenti all’incontro Cavusoğlu ha chiesto di cercare prove sulle accuse rivolte al governo di Doha, altrimenti tutto resta supposizione che avvelena la politica reale. Al tempo stesso dichiarava che l’imparzialità di Ankara mira a sostenere una profonda fiducia su un percorso di collaborazione fra le parti. Il fine di quest’apertura a 360 gradi rappresenta un assist per la dinastia al-Thani, di cui il ministro turco ha comunque ricordato la vicinanza al Consiglio della Confederazione del Golfo nella crisi yemenita e alla stessa Arabia Saudita quando ha subìto l’assalto alla propria ambasciata a Teheran a opera di manifestanti e basij che accusavano i sauditi della repressione contro l’etnìa Houti in Yemen. Insomma Cavusoğlu ha calcato la mano sull’appartenenza qatariota a certi accordi fra petromonarchie, sorvolando sia sul proprio asse con Doha, sia sulla politica autonoma che essa pratica rispetto della dinastia Saud, amante della subordinazione dei fratelli arabi alle sue decisioni.
Nel passo diplomatico non si è trattato un elemento centrale e spinoso: lo sbilanciamento di al-Thani verso il ruolo egemonico giocato dall’Iran sulle componenti sciite presenti in talune aree (Iraq, Libano, Yemen) e le sue alleanze geostrategiche con altri governi (Asad in Siria). Il Qatar, oltre a rompere la linea unitaria dei Paesi del Golfo favorevole a un’egemonia saudita, è accusato di avvantaggiare due stati non arabi nella regione (Iran e Turchia) peraltro colossi economici, politici e militari con velleità di supremazia. Il politico locale che risulta brillare dall’accelerazione della crisi voluta da re Salman è il figlio Mohammed bin Salman, figura rampante della dinastia saudita, che ha già molto potere come ministro della Difesa. E’ però considerato un ondivago, viene tacciato di temperamento umorale, oltre che di scarsa esperienza per il delicato compito ricoperto. Attualmente l’erede al trono è il cugino Mohammad bin Nayef, ma gli osservatori regionali sostengono che dietro le scelte drastiche e di rottura ci sia il giovane rampollo. Secondo più voci sarà lui ad animare il futuro della dinastia Saud, proseguendo la linea delle pretese emoniche, del tradizionalismo reazionario amministrativo e religioso, della doppiezza geopolitica.
In effetti tutto ciò rappresenta una continuazione della linea del capostipite Adb al-Aziz, che prese le redini negli anni Venti per poi trasferirla a successivi parenti, una politica incentrata sul chiuso clan familiare votato alla collaborazione col credo wahhabita più fondamentalista. Anche grazie a questo nell’ultimo trentennio Riyad ha svolto quel ruolo di sostegno e finanziamento sistematico del terrorismo jihadista, prima col marchio Qaeda ora Isis, di cui accusa gli al-Thani. Fra gli alleati più stretti dei Saud ci sono i sovrani degli Emirati Arabi Uniti, che ultimamente hanno come leader il principe di Abu Dhabi Mohammad bin Zayed, considerato un moderato. Nonostante quest’emiro mostri una gestione della politica mediorientale diversa dall’irruento bin Salman, anch’egli, sempre consultato dai sauditi, considera come loro e con loro ogni spirito innovativo nella vita socio-politica interna e regionale come un atto rivoluzionario. Qualsiasi richiesta, non solo protesta, rappresenta una minaccia allo status quo e una sfida al potere personale e clanista delle  famiglie reali. E’ il motivo per cui quest’ultime giudicano fuori luogo, folle e spregiudicata l’azione di al-Thani, accusato di giochi di potere e intrighi per superare e scalzare i Saud dalla funzione guida dei ricchissimi arabi del petrolio, sul doppio fronte politico e affaristico. Lenire tali concetti e preconcetti non sarà facile né per Cavusoğlu né per Erdoğan, la cui smania di protagonismo è considerata pericolosa dai regnanti petrolieri che ne apprezzano solo le maniere forti, ma in politica estera le temono.